L’essenza diessina è il compromesso tra potere e società

Gianni Baget Bozzo

La questione comunista non si è chiusa con la fine dell’impero sovietico. Con essa è terminata la parabola del totalitarismo europeo che è stato l'esito drammatico del moderno in Europa, della sua cultura della rivoluzione totale per cambiare la natura umana e il corso della storia. E il segno ultimo di esso è il comunismo cinese, che ha fuso capitalismo e comunismo in una sintesi impensata, in cui l'elemento totalitario del controllo dei pensieri e delle scelte produce di nuovo innanzi a noi il mondo a una dimensione. Come alternativa alla libertà, il comunismo non è finito. In esso vive l’odio alla civiltà cristiana e occidentale, e quindi alla Chiesa cattolica come radice storica di essa, in moltissime forme, spesso dissimulate. Il comunismo non è in essenza la proprietà collettiva dei beni materiali, è la collettivizzazione dell’uomo spirituale in antitesi al filone fondamentale dell’incivilimento umano, che è appunto quello cristiano e occidentale. La fine dell’Unione Sovietica ha reso possibile una linea di alternativa all’Occidente che può essere oggi automotivata, senza dover fare i conti con la struttura unica del grande impero russo: e può così produrre molteplici linguaggi e molteplici modelli. Il postcomunismo è quindi un fenomeno mondiale.
Anche la situazione italiana può essere analizzata con la categoria del postcomunismo. Si può cioè sostenere che la politica italiana è stata dominata all’interno dal postcomunismo sin dalla crisi dell’89, quando cadde il muro di Berlino. Quando si obbietta a Berlusconi che parlare di comunismo in Italia oggi è un non senso, si pensa al comunismo sovietico. E ciò fa parte del linguaggio «politicamente corretto» in Italia, ma proprio così si dimentica un’altra tesi del «politicamente corretto»: che cioè il Pci fu cosa diversa dal partito sovietico e sviluppò, all'interno della famiglia comunista, un esito che non poteva non essere democratico in obbedienza agli accordi di Yalta tra russi e americani.
Il modello comunista italiano, in fedeltà alla direttiva sovietica, si sviluppò all'interno della zona occidentale. Se mantenne a lungo il carattere di quinta colonna del potere militare sovietico, unì al tempo stesso la capacità di stabilire compromessi con tutti i poteri sociali, economici e politici in Italia, raggiungendo con essi un concordato che non comportasse alcun mutamento in quei poteri, ma solo la delega alla cultura e alla politica comunista di rappresentarli. Così avvenne nella cultura, nell’università, nella magistratura, nella burocrazia, nella Chiesa. Diversamente da un partito socialdemocratico, il comunismo italiano non puntò su una riforma ma su un compromesso. Il punto di riferimento non erano la classe operaia o gli interessi sociali, ma il rapporto di ogni organizzazione e potere nel paese con il Pci. Quello che il Pci aveva imparato dalla lezione leninista e lo differenziava da un partito socialdemocratico, era che il tema essenziale non era il governo e il programma, ma il potere e il partito. È con questa linea che si spiega come storia unitaria il Novecento italiano della Repubblica, in cui l’elemento comunista fu la principale forza agente. Tra il ’92 e il ’94 vi fu il tentativo del «golpe bianco» mediante l’eliminazione del Psi e dei partiti democratici di governo. Berlusconi impedì che l'operazione avvenisse ma ciò non ha tolto il fatto che il gruppo dirigente comunista si sia costituito in un solo partito, il Ds, in cui viveva il concetto che la presa del potere e il controllo della società attorno al partito sia il tema essenziale. È quello che abbiamo chiamato il «leninismo debole» e che è tuttora l’essenza del Ds.


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