L’estetica del sapore che arriva dal Sol Levante

Milano è la città più giapponese d’Italia. Lo è perché sede finanziaria, industriale e creativa. Dei 12/13mila giapponesi che vivono regolarmente in Italia, tremila risiedono nella nostra città (e altri quattromila nelle regioni del nord). I loro biglietti da visita più evidenti sono i ristoranti. Mangiare sushi a Milano è estremamente più facile che celebrare in inverno il rito della cassoeula. Al consolato non hanno una stima precisa ma ritengono che gli esercizi che propongono loro specialità possano arrivare alla cifra di 300. Ma è difficile essere precisi anche per la concorrenza cinese. Tanti cantonesi si sono riciclati e bussano per entrare nell’Associazione Italia Ristoratori Giapponesi, rigorosissima per difendere la sua anima, sito ilovejapan.it, e l’obbligo non solo di cucinare giapponese ma di avere cuochi e titolari giapponesi, soprattutto in un momento economico che vede la Cina surclassare i dirimpettai.
Ormai un ricordo lontano i fasti del Suntory in via Verdi, la cucina del Sol Levante si è sparpagliata per la città e da domani sarà oggetto di una mostra alla Triennale: «L’Estetica del Sapore un’arte giapponese», inaugurata ieri sera con la cerimonia del sakè, la bevanda alcolica che si ottiene dalla fermentazione del riso. Curata dalla Fondazione Italia Giappone, 06.6784496, italiagiappone.it, in particolare da Salvatore Damiani, rimarrà aperta fino al 2 maggio (salvo lunedì prossimo), con orario 10/20.30.
Estetica e sapore, un binomio imprescindibile del Giappone a tavola, qualcosa che noi italiani facciamo fatica a capire perché, tanto noi siamo per la fantasia, tanto i cuochi giapponesi sono di un rigore assoluto, in una continua ricerca della perfezione nel piatto, senza vergognarsi di copiare il passato, anzi fare della gesto ripetuto un costante tendere alla perfezione formale e alla bellezza. Un piatto brutto, sgraziato non può anche essere buono: «Il bello è anche buono e odora di buono». La parte che l’occhio vuole ha peso pari a quella del palato e lo studio dei vuoti è importante tanto quanto quello dei pieni, i volumi delle materie prime che non possono essere disposte a casaccio.
La mostra racconta tutto questo, suddivisa in 12 sezioni, ognuna riservata a un preciso aspetto della cucina e dell’arte della cucina attraverso le fotografie di Shunji Okura, mentre l’architetto Taro Ashihara ha curato una settore a parte sugli oggetti da cucina disegnati da designer giapponesi. Si parte dal ricordare il gioco tra ikebana e filosofia zen, dall’attenzione ai numeri che devono essere dispari (portano bene) e in contrasto nelle forme, mai solo curve o solo angoli, mai la stessa forma.

Massimo valore alla regola del 5: cinque colori, cinque sapori, cinque cotture (ma il crudo è una cottura?) e poi i momenti della mostra a iniziare dai Mihon, le riproduzioni in plastica dei piatti che sono esposte in strada perchÉ sia chiaro cosa si potrà ordinare, il riso, il sushi, le paste... fino a vasellame e utensili. Eleganza e sobrietà.

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