L’eterno vizio di imitare Con le migliori intenzioni...

Ispirarsi a un altro autore è legittimo. C’è però il rischio di perdere di vista ciò che si sta scrivendo per volersi identificare con il «maestro»

Camminando gli uomini sempre per le vie battute da altri e procedendo nelle azioni loro con le imitazioni, debbe uno uomo prudente entrare sempre per vie battute da uomini grandi, e quegli che sono stati eccellentissimi imitare: acciò che, se la sua virtù non vi arriva, almeno ne renda qualche odore. Così scrive Niccolò Machiavelli nel libro sesto del Principe, chiarendo in modo esemplare una delle concezioni più note dell’estetica del rinascimento, quella di imitazione. Il maestro è Aristotele, ovviamente, che nella Poetica discorrendo di tragedia dice che si basa sulla imitazione della natura, da cui derivano i fatti e casi rappresentati. In particolare, secondo Aristotele, il tragediografo può trovare tale materia già fissata nella tradizione, che giova conservare e non modificare.
Se non si arriva alla virtù dei grandi, almeno che se ne senta l’odore: forti di questa massima, i nostri autori non sono mai stati spaventati dall’imitazione, tanto che la letteratura italiana inizia proprio come imitazione di modelli provenzali e francesi; in seguito imita i classici, e quando esplode il romanticismo indirizza altrove i propri desideri mimetici, basta pensare a Foscolo, alle sue lettere di Jacopo Ortis, evidenti parenti del giovane Werther. In tempi più recenti, possiamo fare i nomi di Beppe Fenoglio e di Cesare Pavese con i loro amati modelli americani. E in tempi recentissimi, e qui arriviamo al punto, possiamo notare come quel precetto - nonostante i passi da gigante che hanno fatto nella considerazione economica i diritti d’autore - non sia ancora stato espulso dalla patrie lettere se pensiamo al caso letterario del momento: Alessandro Piperno e la sua imitazione di Philip Roth e di Mordecai Richler. Chi ha letto in rapida sequenza Con le peggiori intenzioni di Piperno e Lamento di Portnoy e La versione di Barney, nell’ordine di Roth e Richler, non ha potuto, credo, non notare delle forti affinità. Il vitalismo sessuale di Bepi sembra pari pari quello di Barney, le turbe adolescenziali di Portnoy assomigliano parecchio a quelle di Daniel, e non solo perché Portnoy ruba le mutande alla sorella, e Daniel i collant delle amiche, ma per una intensa atmosfera, uniforme e imitata, che spira dalla prima all’ultima pagina. E che dire dello stile? Pressoché simile: con una storia in cui i piani temporali si intrecciano, in cui l’affabulazione è preminente sul plot, in cui la brillantezza e l’intelligenza diventano occasione e motivo di narrazione.
Ma sarebbe sbagliato parlare solo di Alessandro Piperno: quanti giovani autori imitano Thomas Pynchon o Chuck Palahniuk e vedono i loro libri rifiutati dalle case editrici? Quanto postmoderno dobbiamo sorbirci quotidianamente perché negli Stati Uniti si dice che è il miglior stile possibile? E quanto, nel giallo e nel noir, nomi come James Ellroy o Jeffery Deaver hanno influenzato autori di best-seller nostrani?
E per andare ai casi letterari, perché non citare Vitaliano Trevisan: che in qualche modo rende manifesta la sua filiazione a Thomas Bernhard e Samuel Beckett, con una sorta di retorica ricavata dagli standard, temi classici che i musicisti jazz hanno nel repertorio: eseguire uno standard vuole dire ammettere un debito verso la tradizione e nel contempo affermare virtuosisticamente la propria individualità. Così vediamo umorali e annichiliti personaggi bernhardiani che si muovono per le strade di Vicenza, o nella campagna veneta. E persino il successo di critica e di pubblico della scorsa annata Il dolore perfetto di Ugo Riccarelli, non è esente da rilievi di questo tipo: la sua parentela con Cent’anni di solitudine di Gabriel García Marquez appare evidente nella visione dell’epica e del tempo circolare, e persino nella scelta dei nomi dei personaggi.
A volte il desiderio mimetico è così forte e sentito che forse possono soccorrere le concezioni di Leonardo Bruni, umanista del Quattrocento, quando parla di rapimento che chi traduce prova nei confronti del modello della traduzione. Folena, in sede interpretativa, accosta questo stato alle concezioni del sublime: un sentimento misto di terrore e di piacere che si ha di fronte all’incommensurabile.
«Finché non siamo dotati di uno scopo degno della nostra vacuità, copieremo la vacuità altrui e riprodurremo costantemente quell’inferno da cui stiamo cercando di evadere», cita René Girard in un suo saggio dedicato al risentimento. Premesso che come si è detto l’imitazione è propria della nostra tradizione letteraria, e probabilmente di ogni tradizione letteraria (visto che molti autori italiani sono stati assai copiati all’estero), e premesso ancora che non c’è nulla di male nell’imitazione e che l’imitazione stessa ha molte gradazioni, che vanno dalla scomparsa dell’autore imitante, al superamento del modello, le distinzioni girardiane potrebbero essere molto utili in una eventuale riflessione sul senso dell’imitazione in letteratura.
Come è noto, esemplificando al limite del possibile, centro del pensiero girardiano, è il desiderio mimetico. L’uomo non desidera una cosa in sé, perché questa cosa ha le caratteristiche della desiderabilità, ma la desidera in quanto viene desiderata da altri. Girard utilizza la categoria di mediazione esterna per significare che il desiderio si appunta su un oggetto seguendo il modello di un desiderio altrui indirizzato allo stesso oggetto, e di mediazione interna quando l’oggetto in quanto tale per così dire svanisce lasciando i due contendenti l’uno di fronte all’altro nella pienezza della rivalità. In questo secondo caso non siamo più di fronte a un desiderio estetico verso un oggetto-romanzo, ma semplicemente a un desiderio di posizione: voglio essere scrittore come Roth, come Bernhard, come Marquez, o Pynchon, o DeLillo o Wallace. Nel primo caso abbiamo ancora dei valori estetici da raggiungere (se pure la molla viene dalla mimesi) per fare sentire, come avrebbe detto Niccolò Machiavelli, almeno l’odore della virtù.

Nell’altro caso siamo oltre: l’oggetto del desiderio svanisce e con l’oggetto svanisce il romanzo. Il romanzo non sarà allora che l’ennesimo oggetto scomparso e anonimo in un’epoca di risentimento e rivalità. Credo sinceramente che non sia così, ma il pericolo esiste.

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