L’Europa che ignora i propri trattati è... euroscettica

Caro Granzotto, pur sapendo che lei è un irriducibile «euroscettico», le trasmetto una recentissima statistica sulle recentissime nomine all’Unione europea. I dati qui sotto ripresi evidenziano che tre Paesi (Regno Unito, Germania e Francia) considerano indiscutibilmente i «posti europei» molto importanti. Quello che lascia perplessi è constatare che il Paese in assoluto più euroscettico, il Regno Unito, chiede e ottiene il maggior numero di posti. Il Paese in assoluto più eurofilo, l’Italia, riesce ad averne solo uno. Paesi piccoli come Belgio e Irlanda ne ottengono due. Non le sembra che la posizione del Regno Unito sia una contraddizione?
Bruxelles

Sembrerebbe proprio, carissimo Rossetto, ma l’apparenza inganna. L’euroscetticismo britannico è quello comune a tutti gli euroscettici. E non si riferisce a quello che è lo sviluppo del vecchio (ma glorioso) Mercato comune europeo. Figuriamoci se si possa esser contro la libera circolazione di merci e uomini, contro la costituzione di un mercato allargato e molto ben protetto, magari con l’aiuto d’una raffica di quei dazi politicamente semicorretti rappresentati dai contributi comunitari all’agricoltura. È sull’impianto politico-ideologico, sull’ambizione di voler omogeneizzare, livellare, unificando la storia, la cultura e le tradizioni di 27 (per ora!) popoli - uno diverso dall’altro perché ciascuno con la sua storia, cultura e tradizioni - che origina l’euroscetticismo. Il quale diventa poi eurostilità quando si guardi al proposito del governo unico, il che significherebbe sottoporre 495 milioni di cittadini-sudditi a un’unica autorità, un unico Eurofaraone chiamato a interpretare i bisogni, le speranze e le ambizioni di una cittadinanza di quelle proporzioni e di quella varietà. Gesù!
Tastiamolo, caro Rossetto, il polso di questa benedetta Europa prendendo a esempio i Parametri di Maastrich. Oggi nessuno vi fa cenno, nemmeno per atto dovuto. Eppure non molti anni addietro, quando l’Europa si mise a marciare a petto in fuori, dominavano le prime pagine dei giornali e il dibattito politico. Quell’insuperabile - pena sanzioni gravosissime e, nei casi di recidività, l’esclusione dall’eurolandico paradiso in Terra - 3 per cento fra debito pubblico e Pil veniva agitato come lo stendardo di Costantino al ponte Milvio. Con le lacrime agli occhi per la commozione, Romano Prodi ne fece il marchio di fabbrica di un’Unione sentinella del rigore la quale, severa ma giusta, imponeva ai governi soci di mettere una volta per tutte i conti a posto e rigar dritto. Però, come lei sa meglio di me i divinizzati parametri fecero presto la fine che fa la carta straccia. Uno dopo l’altro i governi che pure li avevano solennemente sottoscritti li «sforarono» lasciandoli a tutt’oggi «sforati». Senza ovviamente pagar pegno. Che pensare di un’Europa che non onora - anzi, irride - i propri trattati? Che messa per la prima volta alla prova s’è mostrata meno europeista del sottoscritto, il cui tasso di europeismo è zero virgola zero?
L’Europa che funziona è quella del tornaconto. Quando si tratta di ricavarne benefici, allora sì che s’intona l’Inno alla gioia in un tripudio di bandiere blu stellate. E siccome l’Europa offre molte e variate occasioni per far cassa, ecco spiegato, caro Rossetto, il paradosso di un’Inghilterra euroscettica che briga per ottenere in Europa quanti più posti di potere. Non lo fa perché di punto in bianco s’è messa a credere all’eurosogno. Ma per meglio favorire, nello spirito mercantile che ha fatto grande il Regno Unito, l’industria o l’agricoltura o il turismo o altro che sia della madrepatria. Noi invece voliamo alti, voliamo sulle ali dell’europeismo utopico, sognatore, non brighiamo, non chiediamo.

Attendiamo solo che al Grande Manitù cada l’occhio sull’euroitalia (fu così che ci facemmo fregare con le quote latte, accettando di averne in misura minore del nostro consumo interno. Perché, come disse l’italico negoziatore, «non si baratta l’ideale europeo con un bidone di latte»).

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