Il 1° dicembre è entrato in vigore il Trattato di Lisbona sul funzionamento dellUnione europea. LItalia (impegnata in un gossip da bordello che sconforta) non se nè quasi accorta. Eppure, è un Trattato che - ratificato a cuor leggero dal nostro Parlamento, senza alcun coinvolgimento dei cittadini, né diretto né indiretto - condizionerà fortemente il nostro futuro, la nostra autonomia, i nostri comportamenti. Il suo testo - stampato dalla Gazzetta ufficiale dellUnione europea - pesa kg 1,980, è un groviglio pressoché inestricabile di norme, che ancor più ci consegna ai burocrati di Bruxelles. Oggi, del resto, l80 per cento delle norme pubblicate sulla nostra Gazzetta è già di origine europea: col Trattato, diventeranno il 90 per cento. Di questa legislazione sconforta la luciferina impostazione da Stato etico. L'ultima cosa che vogliono comandarci di fare è di dimagrire, di mangiar questo e non quellaltro.
In questa situazione, in molti si è portati a trovare conforto in una sola considerazione: che fra i tanti vincolismi a cascata che prevede (a cominciare da quelli in materia di giustizia), il Trattato di Lisbona una cosa buona lha introdotta, la possibilità giuridica della secessione unilaterale. Che presuppone, peraltro, una maturazione culturale che in Italia neppure si profila, se non considerando il lavoro al proposito di pochi intellettuali davanguardia, di impostazione libertaria. Che presuppone, soprattutto, di risolvere - in primis - il problema del rapporto con lUnione monetaria, con particolare riferimento - comunque - al fatto che, passati gli anni dellottimismo obbligatorio (e obbligato), vieppiù si sente nei singoli Paesi (e in Italia in particolare, fin dallinizio allegramente autopenalizzatasi) il peso del vincolo che non permette ai Paesi stessi di avere un cambio che rifletta la loro precisa situazione economica (Martin Feldstein, da Harvard, lha denunciato senza peli sulla lingua e, soprattutto, senza ipocriti inchini a una realtà acriticamente considerata).
I costi dellEuropa, d'altra parte, sono enormi (e la nostra Corte dei conti li ha finalmente denunciati apertis verbis). Nel 2008, per di più, lEuropa ha girato al nostro Paese 10 miliardi di euro in meno, rispetto allanno precedente. Di contro, appartenere allUnione europea ci è costato di più: nel 2008, gli oneri relativi hanno subìto unimpennata del 73,3 per cento. Mica poco davvero, lo squilibrio è inaccettabile.
Questo quadro europeo sinnesta su una situazione italiana nella quale un ottimista per natura come Francesco Micheli - nellintervista che questa icona della finanza italiana ha concesso a Osvaldo De Paolini - non vede «un comune sentire politico teso a risolvere i problemi». Che è il punto centrale della crisi, a ben vedere. «Il nostro - sono parole di Micheli - è il Paese degli sprechi. In tempi di crisi, le risorse sono scarse e sprecarle è un delitto. Una delle priorità deve perciò essere quella di rendere efficiente la spesa pubblica: sono convinto che, con una scelta decisa, si potrebbe tagliare fino al 30 per cento delle entrate e riqualificare il 70 per cento che resta per coprire le esigenze vere, creando disponibilità soprattutto per le classi meno forti, che potranno così incrementare i consumi. Non sono - conclude in punto Micheli - il solo a sostenerlo: fior di studi sono stati prodotti sullargomento, ma nessun governo (italiano) ci ha mai provato per davvero». Un esempio? «Abolire il bollo dell'auto, una delle tante fastidiose incombenze - fa presente Micheli - che ci toccano e che potrebbe essere assorbito nel prezzo della benzina».
«Provarci per davvero» (ad «affamare la bestia» della spesa pubblica) è l'unica strada per ridare tono alla nostra economia. Ma provarci per davvero, significa voler abbattere incrostazioni quasi secolari, eliminare assurde aree di privilegio, sopprimere enti che vivono solo per mantenersi (i Consorzi di bonifica ne sono un classico esempio) e così via. Significa battersi per davvero contro il nemico che è alle porte: «I dollari messi in circolo - sono parole, ancora, di Micheli - molto presto cominceranno a reclamare il tributo più temuto: uninflazione crescente che darà fuoco alle polveri della nuova crisi». Provarci per davvero, si diceva. Con Reagan linflazione scese da oltre il 10 per cento del 1981 a meno del 4 per cento nel 1983. Per affamare «la bestia», Reagan adottò l'unico metodo possibile: ridurre il carico massimo di imposizione fiscale sul reddito dal 70 per cento del 1980 al 28 per cento del 1986. La spesa non relativa alla Difesa passò dal 4,7 per cento del Pil del 1980 al 3,1 per cento del 1988. Con la Thatcher, poi, laliquota fiscale massima sui redditi scese da oltre l'80 per cento, al 40.
*Presidente Confedilizia
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