La confraternita delle madame de Staël in salsa ambrosiana già si dispera. Bruno Ferrante se va a Roma, non sarà più lex prefetto che scalda i cuori rossi dei salotti buoni. Il Governo Prodi gli ha trovato unoccupazione: alto commissario anticorruzione nella pubblica amministrazione. Poltroncina di tutto riguardo per lex funzionario dello Stato che, il 4 novembre 2005, ha gettato alle ortiche una carriera da grand commis per (re)indossare leskismo e candidarsi sindaco del centrosinistra. E che, adesso, abbandona pure laula di Palazzo Marino per Roma.
Sconfitta ripagata, quasi in corner e con tanto dispiacere dei salotti della sinistra radical, quelli dove Ferrante dottoreggiava sotto gli stucchi e gli ori. Serata da pensionato zona corso Venezia-Monforte, dopo una giornata trascorsa tra i libri - «cinquemila catalogati di persona» -, la commissione comunale e, perché no, il personal trainer che aiuta a restare in forma. Ma, attenzione, dopo aver prontamente rimesso nellarmadio quelleskimo «ricordo di tante manifestazioni sessantottine», che qualcuno gli aveva suggerito di togliere dalla naftalina per tentare di raccattare il voto dei centri sociali e quello dei pasdaran degli abracadabra del politicamente corretto.
Già, lex inquilino della Prefettura si è di nuovo trasformato. Da Cova in corso Matteotti oppure al bancone di Taveggia per il primo thé mattutino, non cè traccia del Ferrante in versione jeans and Clarks: i polsini delle camicie bianche sempre slacciati tornano a uscire il giusto dalle maniche di grisaglie impeccabili e sotto scarpe scamosciate si rivedono calze rigorosamente blu.
Metamorfosi di un damerino, come lo definiscono gli intimi, che si completa col sofisticato IWC alternato al Rolex. E, osserva qualche altro amico, Ferrante è ritornato ad avere le idee chiare persino sulle automobili, «meglio le straniere che le italiane»: Bmw o Mercedes poco importa, basta che la carrozzeria sia di un blu intenso: magari, come quella che grazie alla nomina voluta dal Consiglio dei Ministri lo scorazzerà in lungo e in largo a Roma. Certo, quando era prefetto, non aveva un autista bensì quattordici-autisti-quattordici a sua disposizione.
Chissà che ne pensa il biografo, Angelo Maria Perrino, di questo nuovo cambiamento di stile. Perrino in campagna elettorale arrivò a tessere le lodi del giovane meridionale - Ferrante è pugliese di Lecce - arrivato al Nord a bordo di una 500, magari un po scassata: quella 500 su cui, con i libri di diritto e di storia - «suo pallino» - viaggiava anche una giovane collega di studi, pugliese di Taranto, Liana Sangirardi, «senza che glielo chiedessi ha scelto di dedicare la sua vita ai nostri due figli, Mauro e Mara».
Vabbè, storia di ieri. Come quella dei tapiri che Ferrante ha ricevuto in dono dai figli, «regali irriverenti» allaspirante sindaco (trombato) del centrosinistra che, racconta papà Ferrante, «hanno sgranato gli occhi quando gli ho spiegato che mollavo tutto per la politica».
Virgolettato che non ritroveremo mai in quella autobiografia scritta pro-campagna elettorale e voluta da Nando Dalla Chiesa. Titolo: Una vita dallInterno. Svolgimento: «Per cinque mesi ho già governato Milano. Successe in piena Tangentopoli, quando la giunta comunale venne commissariata e feci parte di un comitato di salute pubblica che amministrò la città». Sintesi: «Una faticaccia memorabile». Il finale lhanno scritto i milanesi: Ferrante a casa, Letizia Moratti sindaco.Lui, lex prefetto, cè naturalmente rimasto di sasso.
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