«L’ho convinto parlandogli come un padre»

da Roma

«Era distrutto, si era chiuso in se stesso e non rispondeva nemmeno alle nostre domande. Ma io ho figli, e sapevo come fare: ho insistito nel chiedergli cose banali, cosa gli piace, come lo chiamavano quand’era piccolo. E alla fine, ma ci sono volute due ore, con l’aiuto di Cirillo e di una zia che ci ha anche raccontato dei suoi problemi psicologici, si è convinto».
Cosimo Magliano, commissario di polizia all’Esquilino, è uno dei due agenti che ha condotto le «trattative» con Federico, il 15enne che si era seduto su un cornicione al sesto piano dopo aver ucciso i suoi genitori. La sua faccia bonaria e sorridente, incorniciata dai capelli bianchi, e quella «da ragazzo» del vicesovrintendente Andrea Cirillo sono state mandate in prima linea nell’emergenza dell’Esquilino: il «volto tranquillizzante della legge», insomma, per calmare il ragazzino ed evitare che il tragico bilancio di ieri pomeriggio potesse peggiorare ancora. «Era rannicchiato, con la pistola in mano - ricorda Cirillo - , ripeteva di essere una feccia perché aveva ucciso i genitori, io l’ho rassicurato che non era vero e lui si è tranquillizzato. Vedendo che ero giovane e in borghese mi ha dato ascolto, anche se non mi rispondeva ho conquistato la sua fiducia, e alla fine ha lasciato che mi avvicinassi mentre gli parlavo, così quando ho potuto l’ho abbrancato e lui si è lasciato bloccare».
Si rincorrono le voci sulla depressione che affliggeva il ragazzo, un problema che secondo alcuni vicini di casa cinesi sarebbe sorto in seguito a un incidente in montagna di un paio di anni fa, nel quale l’adolescente si sarebbe fratturato le gambe. Ma chi lo conosceva non riesce a credere a quanto è accaduto. «Altro che tragedia annunciata», spiega Fabio, un ragazzone che vive nello stesso palazzo di Federico. Per lui il raptus di ieri pomeriggio è «qualcosa di assurdo, imprevedibile, che nessuno poteva nemmeno immaginare. Federico era un bravo ragazzo, la sua famiglia era tranquilla, serena». «Ultimamente era giù di umore, e si vedeva - ammette invece Alessio, stretto in una giacca di pelle bianca e rossa - anche se lo conoscevo poco ricordo che era riservato, ma sempre gentile». «Cortese» ma anche «introverso» lo ricordano i Tomassetti, vicini di casa del ricercatore del Cnr e di sua moglie, Sybil, restauratrice, nel palazzo al civico 155 di via Turati: «Ogni mattina alle otto vedevamo uscire Federico e i suoi due fratellini, inutile dire che questa tragedia ci lascia senza parole».
E mentre il ragazzino viene portato in questura dagli uomini della squadra mobile guidati da Alberto Intini, davanti al portone del suo palazzo c’è un giovane sconvolto che chiede di poter parlare con qualche responsabile delle forze dell’ordine. «Vorrei offrirmi per garantirgli l’assistenza legale, ma non so a chi rivolgermi. Sono un avvocato, abito qui di fronte, conoscevo la sua famiglia, e lui poi l’ho visto crescere. Non è un drogato, non ha niente che non vada... è un ragazzo normale, come è possibile che abbia fatto questo, e perché?».
Una vicina esce accompagnata dalla polizia. Chiede a un agente di «recuperare i ragazzini», e si riferisce ai fratelli di Federico, che aspettavano ignari a scuola mentre si consumava la tragedia.

È sconvolta, trattiene a stento le lacrime e si copre il viso: «Non ci posso credere, anche se era in cura per la depressione non posso credere che abbia sparato ai genitori - dice con un filo di voce, quasi singhiozzando - e adesso, chi si prenderà cura dei due piccolini»?

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