Denis Verdini
Le parole servono a descrivere, spiegare, specificare e fissare fatti e situazioni. Nella cultura del politically correct in cui siamo immersi, invece, servono in qualche modo a mitigare e a nascondere la forza delle idee. Fin qui niente di male: è una questione di stile. Ma quando le parole servono a mistificare, oppure a modificare la realtà dei fatti, le cose si aggravano, e allora l'opinione pubblica può sfuggire ad ogni controllo perché scatta, fisiologicamente, un meccanismo di autodifesa. Da quando è esplosa, con l'11 settembre, la guerra di Al Qaida all'Occidente, nelle orecchie degli italiani è ripetutamente risuonato un ritornello ispirato al conformismo buonista, secondo cui l'Europa continentale - a differenza degli Stati Uniti e del suo alleato britannico - deve combattere questa terribile minaccia esclusivamente con l'arma del dialogo. Su questa bizzarra trincea si è schierata soprattutto la sinistra italiana, negando ostinatamente il suo appoggio anche alla missione di peacekeeping dei nostri soldati in Irak. Quasi tutti coloro che parlano di «dialogo» specificano che questo va diretto all'Islam moderato. E allora è giunto il momento che qualcuno ci spieghi esattamente cos'è, e dov'è, il mondo islamico moderato. È oramai chiaro a tutti che un'efficace difesa di fronte alla guerra dichiarata dal fondamentalismo religioso di matrice islamica, nei modi in cui si propone, è praticamente impossibile. Infatti la domanda posta a James Baker, ex segretario di Stato statunitense, e il suo conseguente impaccio ne sono la palese dimostrazione: «Quale pena lei pensa sia giusta per i kamikaze?». Baker non ha saputo rispondere. In effetti la risposta è difficile: o ritorniamo, rinnegando la nostra civiltà, a sistemi barbarici quali la rappresaglia fisica e la tortura nei confronti delle famiglie o degli amici dei suicidi, oppure si chiede agli islamici cosiddetti «moderati» di rispettare alcune regole elementari: 1) Reciprocità assoluta con l'Occidente: se da noi si possono aprire le moschee, deve essere consentito ai cristiani di professare liberamente la loro fede negli Stati islamici; 2) la smettano con predicazioni folli e istigazioni nelle moschee ed usino anche loro il linguaggio politically correct definendo i non islamici non più «infedeli», ma «non credenti»; 3) cambino i libri di testo nelle loro scuole, cessando di trasmettere alle nuove generazioni la cultura dell'odio verso l'Occidente e verso Israele, che è l'avamposto mediorientale della nostra civiltà; 4) riconoscano l'impossibilità di applicare regole e dettati religiosi di per sé perfetti alla vita degli uomini, di per sé - fortunamente - diversi e imperfetti. Ciò eviterebbe quantomeno tragedie come quella dei due ragazzi impiccati in Iran perché sospettati di tendenze omosessuali; 5) escano allo scoperto e permettano, senza ambiguità, di individuare persone, luoghi e ambienti dove il terrorismo nasce, si nasconde, cresce e si organizza.
Solo così le parole «islamico moderato» acquisterebbero un significato e sarebbero valorizzate, apprezzate e sostenute. Nel tragico tempo in cui viviamo diverrebbe un valore inestimabile, fondamento e cemento di una reale integrazione fra religioni e culture. Ma la realtà attuale è profondamente diversa: milioni di giovani musulmani percepiscono il fenomeno dei kamikaze come un empireo di eroi del riscatto musulmano perché gli Stati «moderati» in cui vivono, spesso feroci dittature, pur dando la caccia ai terroristi permettono ai loro Media di travisare i fatti e di alimentare l'avversione all'Occidente.
Basti pensare a come giornali e tv egiziani hanno dato conto del massacro di Sharm el Sheikh: per loro è stato un complotto sionista orchestrato dalla solita Cia. In questo circolo vizioso dell'odio, di moderato c'è solo la nostra vana speranza di dialogo.
È forse questo l'Islam «moderato»?