L’impiegato triste che assicurò il silenzio

Il lavoro fra polizze e infortuni gli pesava Riservatissimo e quasi muto anche con i parenti, iniziava la sua seconda vita di notte, quando intorno i rumori si attutivano...

Fu con la raccomandazione dello zio Alfred, capo delle ferrovie spagnole, che il Nostro entrò, fresco di laurea, alle «Assicurazioni Generali». Gli facilitò l’assunzione la sua capacità di stenografare in tedesco. Il giovanotto si era impiegato di malavoglia, costretto dal padre. Il lavoro, duro per chiunque, lo era tanto più per lui, ragazzone di 1,81, ma di fragile costituzione. L’orario di ufficio, di 9 ore, si prolungava spesso fino a tarda sera e per le domeniche non c’erano compensi supplementari. Anche le ferie erano limitate a 15 giorni ogni due anni. «Nutro la speranza - scriveva a un’amica - di sedermi un giorno su sedie di Paesi molto lontani, di guardare dalla finestra dell’ufficio su campi di canne da zucchero o cimiteri musulmani...».
A non piacergli era anche il fatto di lavorare per un’azienda capitalistica. Già sedicenne, simpatizzava per il socialismo. A scuola ostentava sul bavero della giacca il garofano rosso dei socialisti umanitari. All’università fu radiato dalla sua associazione studentesca per essere rimasto seduto e muto mentre gli altri goliardi cantavano in piedi e a squarciagola l’inno patriottico Sentinella del Reno. Un’altra volta, mentre manifestava contro la condanna a morte di un anarchico francese, fu fermato dalla polizia. Costretto a scegliere tra una notte in guardina e una multa, preferì pagare per presentarsi puntuale l’indomani in ufficio. Comunque, appena poté lasciò le «Generali». Avvenne un anno dopo esserci entrato. Il Nostro riuscì a farsi assumere dall’«Istituto di assicurazione contro gli infortuni per gli operai», superando gli ostacoli che venivano generalmente posti agli ebrei per l’ingresso negli impieghi pubblici.
La finalità sociale della nuova occupazione lo riconciliava col suo credo politico. Divenne presto il braccio destro del direttore. Suo compito era ispezionare le aziende dell’Impero e inquadrarle in base al rischio del lavoro operaio. Su ciò erano poi commisurati i contributi che dovevano versare gli imprenditori. Un altro incarico era replicare con articoli di giornale agli attacchi dei datori di lavoro contro la pretesa enormità dei costi assicurativi. Il Nostro era ovviamente schierato con gli operai infortunati. «Come sono umili - osservò -. Vengono da noi a supplicare. Invece di prendere d’assalto l’Istituto e di fracassare tutto, vengono a pregare!». Oltre a essergli più consono, l’impiego statale aveva il pregio dell’orario ridotto: solo sei ore, dalle 8 alle 14. Almeno sulla carta, poteva dedicare molto più tempo allo scrivere. Il Nostro aveva, infatti, una doppia vita: assicuratore e novelliere. E tutta la sua anima stava nella seconda metà. Tornava però talmente stanco dall’ufficio che il vantaggio si riduceva a poco. Aveva bisogno dell’intero pomeriggio per rimettersi dalla fatica. Dormiva dalle 15 alle 19. Andava poi a passeggio, cenava tardi e scriveva dalle 23 alle tre di notte, le ore in cui diminuivano i rumori verso i quali era ipersensibile.
Alla lunga, anche il nuovo lavoro gli fu insopportabile. La costrizione accentuava il suo naturale pessimismo e l’idea che la vita fosse governata da forze oscure e prepotenti. Fin da piccolo era stato preda della paura. Del padre, soprattutto, che lo rimproverava di continuo. Costui, ricco commerciante, era il suo opposto: robusto, sicuro di sé, violento. Lo subì sempre. Solo a 35 anni ebbe il coraggio di rimproverarlo in una celebre lettera. «Tu possedevi per me - gli scrisse - la dote enigmatica dei tiranni... Dinnanzi a te avevo perduto la fiducia in me stesso e l’avevo sostituita con uno sterminato senso di colpa». «Essere accusato, è già una condanna», farà dire al personaggio di un suo romanzo.
La vita sentimentale del Nostro rispecchiò questa abissale insicurezza. Più volte fidanzato, non ebbe mai il coraggio del matrimonio, né di rompere la promessa a viso aperto. Preferì in un caso rivolgersi al padre della fidanzata dando di sé un quadro così devastante che chiunque sarebbe fuggito a gambe levate. «Con mia madre - scrisse - non scambio in media più di venti parole al giorno, con mio padre niente di più di un saluto. Con le mie sorelle maritate e coi cognati non parlo affatto, senza che perciò sia in collera con loro. Il motivo è semplicemente che a loro non ho assolutamente niente da dire. Tutto ciò che non è letteratura mi annoia... Non ho alcun senso di parentela e considero le visite addirittura come atti di cattiveria contro di me. Il matrimonio non potrebbe modificarmi...».
A questa psicologia malata corrispose una precoce malattia del corpo. Nel 1917, a 34 anni, gli fu scoperta una tubercolosi polmonare.

A 37, lasciò il lavoro per cominciare il giro dei sanatori, dal Garda a Merano ai Carpazi. La tubercolosi raggiunse la trachea impedendogli prima di parlare, poi di deglutire. La morte, a 41 anni, gli risparmiò di sapere che le sue tre sorelle sarebbero morte nei lager nazisti.
Chi era?

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