«L’impiego stabile roba del ’68 Il boom figlio della flessibilità»

«L’impiego stabile roba del ’68 Il boom figlio della flessibilità»

«Scontiamo ancora gli eccessi di quella che io chiamo la stagione laburista italiana. Il mito del contratto a tempo indeterminato e l’intoccabilità dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori sono frutto della prevalenza della cultura sindacale che si è affermata durante l’autunno caldo attraverso l’alleanza con il movimento studentesco». Il professor Francesco Alberoni ha le idee chiare sulle cause della mentalità del posto fisso che ostacola la modernizzazione del mercato del lavoro del nostro Paese. Ha letto le dichiarazioni di Monti e concorda con lui. Anche se con qualche distinguo. «Parlando della monotonia del posto fisso», osserva, «il premier ha voluto sollecitare una prospettiva più moderna e dinamica del mercato del lavoro. Il modello di riferimento del futuro è quello anglosassone. Dove c’è maggiore flessibilità e i contratti, per esempio dei professori e docenti universitari, durano uno o due anni. Poi si cambia».
Invece, il nostro modello di riferimento finora qual è stato?
«Bisogna distinguere tra posto fisso, che significa soprattutto impiego nella pubblica amministrazione, e contratto a tempo indeterminato che è frutto delle battaglie sindacali. Finora il nostro riferimento è stato il modello francese. Il posto fisso per eccellenza era quello del professore, del funzionario, dell’impiegato comunale. Soprattutto nel Meridione, dove non c’erano industrie e dove i ragazzi che cercavano lavoro finivano sotto il comando dei caporali. Allora avere un figlio dipendente statale era una benedizione, un investimento sicuro per tutta la vita. Ma non è detto che nella pubblica amministrazione si svolga sempre le stesse mansioni. In università, per esempio, si entra ricercatori e si esce docenti».
Perché, secondo lei, mentre l’economia evolve rapidamente e gli altri Paesi occidentali si adeguano il mercato del lavoro italiano arranca?
«Perché abbiamo una mentalità statica: cerchiamo la sicurezza definitiva, vogliamo accasarci, perseguiamo le garanzie, non siamo disposti a rischiare. In America non è così. Da noi un cinquantenne licenziato resta disoccupato. Negli Usa trova nuove opportunità, si ricicla. Quello che conta è lo sviluppo. In India c’è un tasso di crescita del 10,9 per cento. Purtroppo l’Italia è un Paese sempre più vecchio».
Ma in Italia non è sempre stato così.
«Negli anni del boom economico la gente si muoveva, cambiava. Pensiamo a quanti contadini si sono riversati nelle città e hanno iniziato un nuovo lavoro. Oppure ai venti milioni di persone che si sono spostate in cerca di un mestiere e condizioni di vita migliori. Non era mobilità quella? Non era flessibilità?».
E poi che cos’è successo?
«Sono arrivate le battaglie sindacali. Volevano le fabbriche sotto casa. Dalla fine degli anni ’60 in poi il vero potere in Italia l’hanno avuto i sindacati. E così tutto si è irrigidito».
Fino a oggi che la situazione si è ancora aggravata a causa della crisi internazionale...
«Che non è finanziaria, ma di sviluppo. Certo, se manca la crescita, ci si butta sulla finanza. Se non c’è sviluppo, c’è disoccupazione. La flessibilità viene dopo. Se riprenderà lo sviluppo sono convinto che i giovani si adatteranno».
Ne è sicuro professore?
«I più intelligenti lo sanno. Vanno a studiare all’estero, viaggiano, hanno capito. Altri sono ancora frutto di quella mentalità statica. Puntano tutti a professioni di alto profilo e spesso restano disoccupati perché la concorrenza è tanta e la richiesta poca. Intanto i lavori più umili li fanno i polacchi e gli slavi».
Come si cambia questa mentalità?
«È un lavoro che richiederà anni. Monti ha voluto dare la sveglia indicando un modello di modernità dinamica».
Da dove cominciare?
«Io credo che la maggior arretratezza la scontiamo nell’istruzione. Manca un insegnamento adatto alla modernità. Ci sono tante facoltà che non si sa bene che cosa insegnino. Si fanno studi poco adatti all’occupazione in aziende che operano in un’economia globalizzata. Penso all’insegnamento delle lingue, alle competenze nel campo dell’informatica.

Non possiamo lontanamente paragonarci ai piani di studio delle università americane. Per questo, i giovani se vogliono essere sicuri di entrare nel mondo del lavoro sono costretti ad andare a studiare all’estero. Dobbiamo elevare il nostro livello d’istruzione».

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