L’incubo del referendum turba il sonno dei partiti

Il diessino Vannino Chiti è uno e bino. Di giorno è ministro per i Rapporti con il Parlamento. Di notte fa il ministro per le Riforme istituzionali e tesse la tela di Penelope. Toscanaccio dalla testa ai piedi, si crede più astuto di una volpe. Sarà per questo che ha giocato d’anticipo. Appena il giorno prima del 24 aprile, quando è iniziata la raccolta delle firme per il referendum elettorale, Chiti si è presentato alle commissioni Affari costituzionali di Camera e Senato e ha detto la sua riguardo alle ipotesi di riforma elettorale volte a scongiurare un referendum temuto soprattutto dai «nanetti» delle due coalizioni.
Il guaio è che gli scritti rimangono, mentre le parole volano. E per l’appunto il ministro, dopo essersi fatto per ben sei mesi il giro delle chiese partitiche con la speranza di raggiungere un'intesa, uno straccio di articolato normativo non è stato in grado di squadernarlo. Ora, se ci sono voluti sei mesi per un semplice giro d’orizzonte senza cavare un ragno dal buco, è assai probabile che di qui alla primavera dell’anno prossimo il Parlamento difficilmente sarà in grado di far uscire dal cilindro un coniglietto di leggina elettorale. Con il bel risultato che andremo diritti dritti a un referendum che già adesso induce timori soprattutto a sinistra.
La paura, si sa, è cattiva consigliera. Sarà per questo che si fa a gara a chi la spara più grossa. In prima fila, noblesse oblige, si è schierato il presidente della Camera, Fausto Bertinotti. Ha dichiarato che il referendum sulla legge elettorale «è un pericolo per la democrazia». Ora, è lodevole che la terza carica dello Stato dica ciò che pensa. Ma è incredibile che si ponga sul banco degli imputati un istituto di democrazia diretta come il referendum previsto a più riguardi dalla Costituzione. Ed è stupefacente che sia relegato ai margini delle istituzioni il popolo sovrano.
Come i bravi di manzoniana memoria, gli alti papaveri dell’Unione sono più che mai convinti che il referendum non si abbia da fare anche nell’ipotesi che il Parlamento non riesca a battere un salutare colpo. Ci sarebbe un modo per rinviare il referendum di uno o addirittura di due anni. Basterebbe lo scioglimento delle Camere nella primavera dell’anno prossimo. Ma i nostri parlamentari non si rassegneranno mai allo scioglimento anticipato delle Camere. Ecco che si confida nella Corte costituzionale, che nel prossimo gennaio dovrà pronunciarsi sull’ammissibilità del referendum. Ad arte si è sparsa la voce che i profili di inammissibilità sarebbero diversi. Ma si tratta di favole metropolitane. Perché le leggi elettorali per i due rami del Parlamento che uscirebbero dal voto referendario eventualmente vittorioso sarebbero immediatamente pronte all’uso. Perciò o i partiti si decidono a decidere o la parola passerà al popolo. Tertium non datur.


paoloarmaroli@tin.it

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