Una guerra alla quale partecipammo attivamente anche noi, sotto le bandiere della Nato, ed era il 1999, non è bastata. Non è bastato neppure il crollo del regime di Slobodan Milosevic, la sua cattura, il suo processo, la sua morte nel carcere olandese di Scheveningen. Otto anni dopo, come se tutto fosse stato inutile - lamministrazione controllata Onu, la presenza dei militari della Kfor, lo stucchevole andirivieni di specialisti in lane caprine diplomatiche, anni di colloqui e di negoziati, e di trattative - il dossier Kosovo torna dattualità. Il muro contro muro tra kosovari di etnia albanese (che sono stragrande maggioranza e reclamano lindipendenza) e i serbi(sostenuti in particolare dalla Russia, che appoggia Belgrado nella sua visione di un Kosovo ancora e sempre legato alla Serbia) continua implacabile.
Quel che è cambiato, negli ultimi mesi, è solo landamento del barometro, che ora segna brutto stabile; come se una nuova, imponente perturbazione dovesse nuovamente abbattersi sui Balcani.
I segnali, a saperli leggere, non mancano. Qualche mese fa il corpo di polizia della Nato arrestò un albanese che aveva centrato a colpi di bazooka il monastero serbo di Decani. Ma è solo uno dei tanti episodi violenti contro le chiese ortodosse del Kosovo. A Krusevac, nella Serbia meridionale, non cè weekend che non veda un raduno di qualche centinaio di nostalgici del generale Mladic (tuttora ricercato dal Tribunale dellAia per la strage di Srebrenica) che hanno aperto il libro delle iscrizioni a una non tanto fantomatica milizia per il Kosovo.
Gli otto anni trascorsi dalla cacciata dellesercito serbo da Pristina sono solo serviti alle mafie kosovare per irrobustire la rete dei loro traffici: droga, contrabbando, prostituzione. Mentre la minoranza serba, asserragliata in alcune ridotte prevalentemente a ridosso con la Serbia, vive la vita dei vinti: tollerati dai vincitori (finché restano zitti e buoni nei loro pollai), vittime di soprusi, spettatori inermi dei roghi in cui si consumano le loro chiese, stranieri a casa loro.
Anche il panorama delle dichiarazioni e delle controdichiarazioni, tra Pristina e Belgrado, via Londra e Mosca, non lascia presagire nulla di buono. Leggete, e fatevi due conti da soli. Ecco Boris Tadic, per esempio, presidente serbo. «Belgrado non riconoscerà lindipendenza del Kosovo», dice a Praga rispondendo alla minaccia di dichiarazione unilaterale dindipendenza di Pristina, ribadita un giorno sì e uno no dal premier albano-kosovaro Agim Ceku.
E per rimarcare la serbitudine del Kosovo, arriva da Belgrado la notizia secondo cui i serbi rimasti nelle riserve indiane del Kosovo voteranno le proprie amministrazioni locali in contemporanea col resto della Serbia; mentre si fa più pressante linvito a disertare le prossime elezioni politiche e amministrative del prossimo 17 novembre.
È solo per evitare il peggio che si continua, formalmente, a discutere. Prossimo appuntamento, verso la fine del mese, a New York, dove è previsto un faccia a faccia tra le più alte cariche della Serbia e del Kosovo. Intanto, oggi e domani, riprendono a Londra i negoziati sullo status della provincia. Le parti incontreranno separatamente i mediatori della trojka Usa-Russia-Ue. Ma siamo al campo delle cento pertiche, mentre la data del 10 dicembre (giorno previsto per la chiusura del negoziato, quando si dovranno riferire i risultati raggiunti al Palazzo di Vetro) è qui che viene.
Per lex capo guerrigliero kosovaro Agim Ceku, oggi primo ministro, le chiacchiere stanno a zero. «Se la comunità internazionale esita a prendere la decisione - spara Ceku - la prenderemo noi, a dispetto di tutte le sfide».
Decisi a seguire la via negoziale (ma altrettanto decisi a difendere coi denti i loro interessi) sono i serbi, che per bocca del presidente Tadic riconoscono linutilità di una guerra «che sarebbe disastrosa per tutti». Ma lo dice nel corso di una cerimonia militare, Tadic; e lo fa di fronte a ranghi compatti di ufficiali che non hanno digerito lumiliazione del 99 e non vedono lora di prendersi una qualche rivincita.
Ma Tadic, laccorto Tadic non è tutta la Serbia, come ha dimostrato la settimana scorsa un alto funzionario del governo di Belgrado minacciando di inviare truppe in Kosovo in caso di proclamazione unilaterale di indipendenza.
Anche a Mosca si respira un certo nervosismo. «I leader dellOccidente non oseranno mai appoggiare una dichiarazione unilaterale di indipendenza», dice Putin scoprendo i canini in un sorriso gelido.
Ecco, questa è la situazione.
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