Cultura e Spettacoli

L’indicibile orrore nascosto nelle viscere del serpente bianco

Un Bram Stoker senza Transilvania, senza vampiri, non per questo meno sanguinario, meno attento a delineare le paure più arcane, più ancestrali dell’animo umano. Anzi, uno Stoker molto meno noto e letto, molto meno abusato e maltrattato dal cinema, che scava con attenzione maniacale, e anche con un certo compiacimento, nelle latebre tombali, nei miti ancestrali dell’antica Inghilterra, per scoprire che non sono così lontani dalla magia nera africana, tanto che i due mondi, malvagiamente, si fondono.
Sì, perché l’inventore di Dracula scrisse negli ultimi anni della sua vita (morì nel 1912) La tana del serpente bianco, un romanzo breve che nelle sue intenzioni doveva essere la sua opera più attenta e approfondita sulle pulsioni primitive che attraversano l’animo umano. Il libro che adesso Donzelli riporta in libreria (pagg. 184, euro 21) con una traduzione nuova, di Nello Giugliano, dopo alcune uscite «sbrigative» degli anni Novanta in cui era fuorviante anche il titolo - fraintendendo il senso arcaizzante della parola «worm» era diventato La tana del verme bianco - venne terminato nel 1911, quando Stoker già iniziava a soffrire di quei disturbi, forse legati agli effetti di una sifilide terziaria, che lo avrebbero portato alla morte. Il punto di partenza della trama è la rielaborazione di un’antichissima leggenda del folclore inglese: il mito del serpente di Lambton. L’antica storia narrava di una bestia primordiale che strisciava fuori da un pozzo per portare devastazione e morte. Questo ricordo legato agli antichi culti serpentari della Dea madre si trasforma però per Stoker nella traccia, putrida e squamosa, su cui cucire il dramma delle pulsioni umane.
La tana del mostro viene posta alle fondamenta di un’antica dimora. Un cunicolo puteolente e mortalmente profondo, circondato da un bosco dove serpi e vipere spuntano dappertutto. Al grande e antichissimo «drago» (è questo il senso dell’anglosassone «wyrm-worm») viene data una doppia natura, quando vuole assume le sembianze della algida ma sensuale Lady Arabella March. Nel corso dei millenni, infatti, la mente della creatura primordiale si è evoluta sino a raggiungere il livello dell’intelligenza umana, acquisendo astuzia luciferina ma nessun sentimento. E ovviamente, per il maniaco della frenologia, e alquanto misogino, Stoker tutto questo male assume forme diabolicamente femminine. E nonostante il fatto che nel 1911 si sia ormai fuori tempo massimo Lady Arabella, con la sua fredda crudeltà capace di trasformarsi in voluttuoso desiderio di sangue e morte - memorabile la scena in cui afferra una mangusta, nemica dei giurata dei serpenti, e maciullandola si ricopre di sangue e viscere - è l’ultima epigona della cultura vittoriana, dove sotto l’apparenza la violenza della natura umana è sempre pronta a esplodere.
Attorno a questo personaggio, vero nemico che i buoni dovranno scoprire e abbattere, si incrociano tutte le altre fissazioni maniacali, che caratterizzano la prosa e la fantasia dello scrittore irlandese. Fissazioni e paure materializzate nei personaggi. C’è Sir Edgar Caswall, moderno stregone-alchimista, dedito a folli esperimenti mesmerici e con l’animo spezzato in due. Da un lato è attratto dalla portentosa serpentessa, dall’altro vuole ottenere un completo dominio psicologico sulla giovane Lilla che gli si contrappone in «una battaglia ipnotica» che le costerà la vita (e anche qui il doppio vittoriano si incarna perfettamente). C’è Ulanga il servo «negro» di Canswall che Stoker utilizza per descrivere tutto il male che si trova nella natura primitiva (altro che il buon selvaggio di Rousseau): «Un selvaggio non istruito ne convertito, e innate in esso vi erano tutte le orribili possibilità di un figlio della foresta e della palude, perduto e guidato dal demonio, la più bassa di tutte le forme del creato che avessero un aspetto apparentemente umano».
Ecco ne La tana del serpente bianco Stoker concentra tutte le paure di un’epoca che stava ormai tramontando: l’uomo nero come simbolo delle forze irrazionali, la donna come simbolo della malvagità atavica e specularmente della purezza che è peccato corrompere, la brama di conoscenza occulta e parascientifica che si trasforma in un nuovo culto feroce e positivistico. E tanta è la sua volontà di far prorompere dalla pagina il senso di oppressione, che caratterizzò la fine di un’era, che in parte la trama ne soffre: i «buoni» risultano essere personaggi stucchevoli e abbozzati, creati quasi solo per far da contrappunto ai malvagi e ai perduti.

Eppure leggendo questo affastellarsi di incubi si trova forse lo Stoker più vero, uno Stoker senza filtro che è quasi un Lovecraft ante litteram.

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