L’inquietante mistero del «déjà vu»

Viaggio in un paese mai visitato. Parlo con gente appena conosciuta. Visito una nuova casa. E «sento» di aver già visto quel paese, conversato con quelle persone, visitato la casa. Vivo, insomma, immerso nella certezza che non tutto è interamente nuovo, che qualcosa sta accadendo per una seconda, (o terza, o ennesima?) volta. Sto tentando di riassumere quel vissuto complesso e frastagliato che gira sotto il nome di déjà vu: la sensazione lieve e tuttavia inconfutabile di avere già provato quanto avverto «qui e ora». Un inquietante incrocio di percezione attuale e di ricordo, insomma. Attenzione, però: qui non si discorre attorno a sogni, allucinazioni, rimossi che irrompono nel presente, memorie involontarie riportate alla luce della consapevolezza.
Perché il tratto distintivo del déjà vu sta nel fatto che, insieme alla percezione dell’anteriorità, la coscienza aziona subito una sorta di contromisura tesa a confutare la possibilità stessa dell’evento. E allora io vivo il paradosso d’una esperienza evidente e chiara alla quale, tuttavia, rifiuto di conferire credibilità obiettiva. Dunque, quel déjà vu che tutti, nella vita, abbiamo in qualche maniera provato, possiede uno statuto altamente anomalo: si impone, quasi mi obbliga a verificare in prima persona che una frazione di passato sta ritornando in me. E che mi è lecito, di conseguenza, credere alla ripetizione degli eventi, all’eterno ritorno dell’identico, al ripresentarsi di circostanze, vite, perfino anime pregresse.
Contemporaneamente, nego consistenza reale a quelle stesse riprese, a quei ritorni. Come se, al solo sospetto d’una temporalità ciclica, mente e corpo si affannassero subito a nasconderla. O come se, sconvolti dall’euforia abissale che tutto può accadere infinite volte, noi ci si rinchiudesse in un tempo lineare, che procede nel passaggio di un attimo dopo l’altro, ad interim. Perché è meglio vivere in uno scorrere «seriale» piuttosto che nella ripetizione perenne delle cose: non a caso Nietzsche definiva quest’ultima «il peso più grande». Difficile, infatti, pensare e tollerare l’idea che ogni mio gesto, ogni dolore, la morte siano già accaduti e ancora accadranno. Forse, l’irripetibilità, l'unicità, la stessa tetra finitezza individuale in verità ci rassicurano, mettono paletti alle vertigini dell’assoluto, offrono garanzie alla vita.
L’esperienza-limite del déjà vu sembra scardinare proprio quell'insieme di garanzie per mettermi di fronte alla possibilità che l’eterno, invece, sia già qui, che posso percepirne, viverne alcune frange. Per questo, siamo costituzionalmente portati a respingerlo, sterilizzarlo, ascriverlo alle patologie psichiche e alle anomalie della mente. Agli innumerevoli miti della rinascita e della rigenerazione. Oppure, lo affidiamo all’affubulazione letterararia. Remo Bodei, nel suo Le piramidi del tempo (Il Mulino, pagg. 152, euro 12), ha compilato una mappa delle più intense testimonianze del déjà vu: da Dante Gabriel Rossetti a Ungaretti, da Verlaine a Louis Blanc.

Terminata la lettura, resterà tuttavia una domanda essenziale: perché l’eventuale ripetizione delle cose c’infonde una sensazione di vertigine consolatoria ma, nel profondo, regala terrore, squilibrio, panico? Forse, perché contraddice l’essenza umana, perché è l’antitesi radicale alla sua incomparabile finitudine, e indica un mondo possibile ma assolutamente estraneo. È un paradosso, ma certe promesse di eternità ci atterriscono.

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