L’intervento Boeri sbaglia, nessuna comoda eredità per i giovani artigiani

Può succedere anche agli economisti più attenti di descrivere una realtà semplificandola un po’ più del necessario e, a volte, anche un po’ più del lecito. Magari per essere più efficaci e convincenti, si finisce per tagliare la verità con l’accetta con il risultato di mutilarla in alcuni aspetti sostanziali. Non sfugge a un approccio così «manicheo» neppure il professor Tito Boeri che, in un suo recente editoriale, se la prende con quelle che definisce le innumerevoli associazioni di «giovani di». Tanto per non fare nomi: Confindustria, Confartigianato, Confcommercio...
Per ragioni abbastanza misteriose, sembra proprio che, nella concezione del professor Boeri, gioventù sia sinonimo di spensieratezza. E dunque, tali associazioni sarebbero dedite a organizzare convegni e dibattiti che, di fatto, sono una sorta di campi estivi o, magari, di the danzanti della borghesia dei vecchi tempi. In un clima così spensierato, ovviamente, sempre secondo Boeri, di tutto si parla fuorché dei problemi veri e seri che affliggono il Paese e, più in particolare, le nuove generazioni.
Se la si racconta così, ai lettori viene naturale pensare che questioni come la disoccupazione o il sistema pensionistico siano circondate dal «silenzio dei deficienti». E altrettanto scontata può apparire la lapidaria conclusione a cui arriva lo stesso professor Boeri e cioè che i «giovani di» dovrebbero in realtà chiamarsi «figli di» in quanto ragazzotti senz’arte né parte il cui solo merito sarebbe quello di avere un papà imprenditore.
E qui l’analisi del pur autorevole economista passa decisamente il segno lasciandosi andare a definizioni generiche e dunque banali. Così non sarebbe stato, invece, se il professor Boeri avesse avuto la pazienza e magari anche l’umiltà di approfondire un po’ di più la sua conoscenza sia del mondo dell’imprenditoria giovanile sia di quello delle piccole imprese che costituiscono di fatto la struttura portante dell’economia del nostro Paese.
Tanto per cominciare, la poco simpatica etichetta di «figli di» può avere qualche senso se ci si limita a un orizzonte di grandi nomi e di grandi gruppi. Per tutti gli altri, non ci sono comode «eredità» ma un quotidiano lavoro in cui si cerca di far quadrare costi e ricavi. Poiché per abitudine preferisco parlare di cose che conosco, aggiungo subito che circa il 40 per cento dei giovani imprenditori artigiani non ha aziende di famiglia ma è imprenditore di prima generazione. Il 30 per cento ha creato la propria azienda partendo da zero e un altro 10 per cento ha acquistato un’attività già esistente investendo in questa iniziativa i propri risparmi. Se poi il professor Boeri vuole sostenere che, nel far questo, i giovani sono stati aiutati dalle loro famiglie e che quindi sono comunque «figli di», è sin troppo facile rispondergli che solo dalle famiglie poteva venire un sostegno adeguato visto e considerato che il sistema bancario non è molto sensibile a supportare nuove iniziative imprenditoriali e dunque la creazione di nuovi posti di lavoro. Ma dell’atteggiamento non proprio lungimirante delle banche verso l’economia reale non mi sembra che il professor Boeri abbia mai avuto modo di occuparsi.
Anche l’accusa di un deplorevole silenzio sull’emergenza disoccupazione può essere rispedita al mittente con la coscienza serena di chi forse ha parlato poco ma sicuramente ha fatto molto. Boeri, evidentemente, non ha letto le cifre contenute nel rapporto presentato in marzo all’assemblea annuale dei giovani imprenditori artigiani. E dunque non tiene conto che, nonostante la crisi, l’81 per cento dei nuovi posti di lavoro nell’ultimo anno è stato creato dalle imprese con meno di dieci dipendenti. Né considera un altro dato significativo: fra il 2005 e il 2008, i posti creati dalle piccole e medie imprese (fra le quali è determinante il ruolo degli artigiani) sono stati più di 970mila contro i 10mila delle grandi imprese. La verità, quindi, è che i piccoli hanno continuato ad assumere, affrontando spesso anche la difficoltà a reperire manodopera qualificata e accollandosi quasi sempre anche l’onere della formazione professionale. E proprio per questo, perché la formazione viene fatta in azienda e a spese dell’azienda, l’87,2 per cento dei dipendenti delle imprese condotte da giovani è assunto a tempo indeterminato.

I rischi di precarietà che il professor Boeri paventa evocando situazioni di un quarto di secolo fa forse ci sono ma sicuramente vanno cercati altrove. Possibilmente con una maggiore documentazione e con un’analisi più approfondita di quelle che abbiamo visto finora.
*Presidente giovani imprenditori di Confartigianato

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