L’intervento I falsi paladini della libertà di stampa

C’è del marcio in Italia. E purtroppo in tutto il mondo. L’ipocrisia moralista che affumica i cuori e ottunde il cervello di chiunque si rifiuti di vedere i fatti, preferendo infilarsi, da codardo, in un’idea apparentemente condivisibile. In realtà frutto di pre-giudizio. Soprattutto politico e, comunque sia, di tendenza politicamente corretta. Per esempio: giudicare aggressivo il Giornale e ritenere, invece, Repubblica vittima della persecuzione governativa. Vituperare Feltri che riporta la notizia di una sentenza (tale è in sostanza il patteggiamento) emessa in nome del popolo italiano e solidarizzare contestualmente col vittimismo di Repubblica che importa, senza sosta, i pettegolezzi sessuali delle prostitute di professione (italiane finché si vuole, ma che non parlano in nome del popolo).
Certamente non può essere esente da critica, anzi, il comportamento di un uomo ultrasettantenne - per di più capo di governo - che frequenta spensieratamente donnine interessate, fingendo con se stesso di spargere fascino e desiderio erotico. Ma chiunque può constatare ogni giorno che trattasi, questo, di un comportamento diffusissimo tra uomini ricchi, o di potere o di visibilità sociale. Già meno - anzi per niente - rintracciabile tra gli impiegati delle Poste, i pescatori, gli operatori ecologici. Dunque, il problema morale e scandaloso è evidentemente il moltiplicarsi di donnine voraci, sfruttatrici, incapaci se non di essere parassite dei meriti altrui. Questo dovrebbe essere l’oggetto dell’esame e della critica sociale, stampa e vescovi compresi. Da qui dovrebbe partire l’indignazione dei benpensanti per poi comprendere, anche, la stupida debolezza degli uomini coinvolti, sprovveduti e presuntuosi. La libertà di stampa infatti non deve diventare l’alibi per eccitare ed esercitare il guardonismo, quanto invece, più opportunamente, l’occasione di attuare il dovere di informare e formare i cittadini.
Per i politicamente corretti, ma schierati, è invece troppo golosa l’occasione di dare contro al premier, così dimenticando in un attimo valori importanti per tutti, quali l’onestà e la dignità, del tutto assenti nelle donne rapinatrici di luce e di residue energie altrui. Nell’attaccare quell’uomo, anziché queste donne, i moralisti di rimessa smentiscono il contenuto significativo di un pensiero, da sempre vanto della sinistra, fondato sulla libertà sessuale e sull’abbattimento delle tradizioni familistiche e pastorali.
Altrettanto evidente paradosso degli ipocriti politicamente corretti, è il farsi paladini, appunto, della libertà di stampa (propria) nello stesso momento in cui fustigano il diritto di cronaca documentato della stampa concorrente. Per non parlare poi dell’assurdità delirante di lamentarsi, con tanto di questua di firme e pensieri solidali, di una causa giudiziaria che li vede convenuti al fine di ottenere una sentenza che accerti e dichiari che vi sia stata o no diffamazione in una vicenda diventata una grancassa giornalistica.
Premesso che nessuno al mondo ha il dovere di rispondere alle domande di un giornalista e premesso altresì che un giornale serio non è un luogo idoneo ai processi, qualunque cittadino - anche il più criticabile - ha il diritto di difesa, riconosciuto dall’articolo 25 della nostra Costituzione. Perché venga accertato, nella sede istituzionale, se vi sia stata violazione di un qualsiasi diritto e da parte di chi. Con tutte le garanzie processuali e di, sperata, imparzialità che giudici e tribunali dovrebbero assicurare. C’è da dire che, nella posizione del premier, il coraggio e l’audacia di sottoporsi al giudizio dei giudici quale parte attrice, dovrebbero stupire più del suo banale e ovvio diritto di usare uno strumento di legge qual è, a disposizione di tutti i cittadini, l’azione giudiziaria che ha così scandalizzato tanti intellettuali codini.


Se i giornalisti oggi chiamati a rispondere in giudizio del loro operato, hanno la coscienza di avere fatto il loro dovere e di avere esercitato correttamente il loro diritto scrivendo, entro i limiti amplissimi che la legge loro riconosce, se non hanno paura di sottoporsi all’esame di giudici sereni e competenti, perché sbraitano e chiedono aiuti schierati? Perché temono il codice che loro stessi invocano a loro difesa? Perché, prima, ridicolizzano le norme sull’impunità e, poi, pretendono per sé la medesima impunità? Perché si propongono come vittime giudiziarie, dopo avere sbeffeggiato chi proclamava di esserlo e ha persino dimostrato di esserlo stato? Intellettuali e vescovi, se non volessero rispondere, come è loro diritto, potrebbero almeno ricordare il Vangelo: chi è senza peccato, scagli la prima pietra.
Berlusconi, quanto meno, l’ha scagliata, ma in nome della legge.

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