L’INTERVISTA 4 RAMIN BAHRAMI

La vita non è stata generosa con Ramin Bahrami. Nato a Teheran nel 1976, a 12 anni ha dovuto fuggire dal suo Paese e due anni dopo, mentre studiava al Conservatorio di Milano, suo padre fu ucciso dai pasdaran. Poco prima di morire, in una lettera dal carcere gli aveva scritto: «Frequenta Bach, non ti lascerà mai solo». Così Ramin ha dedicato la sua vita al compositore e ne è diventato uno dei maggiori interpreti. Ha registrato sette (splendidi) cd bachiani e con l’ultimo - Bach: Piano Concertos, con Riccardo Chailly e la sua Gewandhausorchester - ha sfondato a sorpresa nella nostra classifica pop, dove è in rapida ascesa verso il ventesimo posto.
Un risultato lusinghiero.
«Ma Bach merita il primo posto. Prima di tutto perché ha scritto la musica più bella del mondo, che Goethe ha definito “dialogo del Signore con se stesso prima della creazione”, poi perché la sua forza in esilio mi ha salvato dal suicidio e dal manicomio».
Lei ha sofferto molto.
«Hanno distrutto non solo la mia famiglia, ma anche l’antica cultura persiana. Il vero Iran non è quello di oggi, bensì quello di Ciro il Grande, Zarathustra, Avicenna, le rovine di Persepoli. Mio nonno era un noto archeologo che studiava la nostra cultura millenaria fatta di individualità che s’incontrano, così come la musica di Bach, che ho scoperto attraverso Glen Gould da bambino a Teheran».
Bach è la sua vita, ormai.
«È l’autore più contemporaneo e più vicino all’uomo moderno. Mi accompagna in ogni momento della giornata. Quando ho saputo che avevano ucciso mio padre mi sono seduto al piano e Bach mi ha suggerito di eseguire un brano tristissimo di Schubert, ma per il resto non l’ho mai tradito».
Come mai questo successo?
«Con Chailly abbiamo trovato la cosiddetta “terza via” a Bach, ovvero tradizione e prassi esecutiva barocca, ma eseguiti dall’uomo moderno. Nell’assoluto rispetto dell’opera di Bach c’è una più intima fusione dell’aspetto luterano, di quello ludico e di quello popolare con il tocco sinfonico dell’orchestra. Inoltre abbiamo selezionato i concerti, escludendo a esempio il N.6 che in pratica è il Brandeburghese».
Comunque non è musica semplice da ascoltare.
«Perché abbiamo cattive abitudini. Va bene ascoltare la Pausini o Dylan, mi piacciono molto, e anche frequentare le discoteche, ma non bisogna fermarsi lì. Andare solo in discoteca fa male all’igiene acustica. Ci vuole la giusta misura; anch’io amo i vestiti alla moda e le belle donne, ma ci vuole un giusto equilibrio tra cultura ed effimero».
Per lei, dopo la fuga, prima l’Italia e poi, definitivamente, la Germania.
«A Milano mi sono diplomato con Piero Rattalino. La Germania, Lipsia, è stata una scelta obbligata. Primo perché ho un fratello malato che voglio aiutare, poi perché è il mondo di Bach. La Gewandhausorchester ha un suono di velluto e d’oro e ogni domenica esegue nella Chiesa di San Tommaso una cantata di Bach. Lì è tutta la mia vita».
E il suo Paese?
«Sono senza patria. In Iran non c’è nessuna libertà e i potenti della terra parlano ma non fanno nulla. Sono intervenuti in molti Paesi, ma probabilmente da noi non c’è molto da guadagnare, così i nostri settemila anni di storia saranno presto dimenticati».
Lei è considerato uno dei maggiori interpreti di Bach. Che cosa pensa del grande successo di alcuni pianisti italiani?
«La classica è nata in Italia con Monteverdi, Vivaldi ecc. Giovanni Allevi è un bravo pianista ma dovrebbe essere più umile e non parlare di Mozart.

Dovrebbe avere il coraggio di dire: “faccio musica leggera, la classica non c’entra nulla” e non vendere fumo per oro colato».
Progetti?
«Il 6 maggio suono a Roma a Santa Cecilia. Poi sto preparando due cd, uno con le Suites inglesi di Bach, e uno con Chailly per due o tre pianoforti».

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