L’INTERVISTA BRUCE WAGNER

Ti sto perdendo è il titolo del commovente, scabro e molto psicologico romanzo di Bruce Wagner che B.C.Dalai Editore ha appena mandato in libreria (pagg. 384, euro 22). Wagner è uno sceneggiatore (Scene di lotta di classe a Beverly Hills) e romanziere (Il palazzo dei crisantemi) che da sempre appunta la sua disincantata attenzione su Hollywood. Più introspettivo di James Ellroy, meno conciliante di A.M. Homes e meno glamour di Easton Ellis, Wagner - un solitario - è riuscito in questo romanzo a dare un ritratto drammatico del mondo dell’entertainment, scrivendo una sorta di Gli ultimi fuochi di Scott Fitzgerald riveduto alla luce delle sterili ansie e delle indulgenti perversioni della contemporaneità.
Mr. Wagner, lei scrive che l’unica cosa che distingue Los Angeles dalla secca e disperata Valle del Messico è il rivestimento di porcellana, alto un dito, delle vasche da bagno nelle ville...
«Non è inospitale, Los Angeles, ma nella sua luce ci sono molti aspetti nascosti. Possiamo usare la metafora della chirurgia estetica: c’è voluto parecchio lavoro per rendere passabile questa città. Ora sono nel mio studio a Santa Monica, all’epoca in cui sono arrivato qui sentivo urla inspiegabili per tutto il giorno. Poi ho capito: erano persone sulle montagne russe. Los Angeles è un luogo easy, facile. Intendo, un luogo dove è facile impazzire. Al contrario di quanto dicono sulla costa est, se l’America cominciasse a perdere la testa, comincerebbe da qui, dove non ci sono libri né teatri: non è un giudizio, è un fatto. Puoi decidere di entrare nello show business e avere un successo spettacolare, ma questo è anche tutto».
E dopo il successo, anzi a fianco, i disastri interiori.
«Molti miei personaggi vanno dall’analista. A Hollywood è titolo di merito, non segnale di problemi. Ma queste terapie sono inutili, a causa del potere della celebrità: quando un mio personaggio famoso gli racconta di aver abusato di una bambina, il suo analista, che in California avrebbe l’obbligo di denunciarlo, preferisce credere che si tratti di un’allucinazione. Non vuole compromettere il giro di pazienti celebri. Nello star system c’è un’alterazione della realtà per cui le persone si credono davvero innocenti prima di diventare realmente perverse».
Dal suo libro: «Il suo sorriso gli ricordò quello della madre in La casa nella prateria. Tutto è una seconda visione». Come si vive quando tutto è una seconda visione? C’entra con l’attuale esagerata moda del remake?
«Hollywood è un animale ciclico, ma ora la cosa è diventata grottesca. Qui non puoi fare un film da due milioni di dollari, non lo prendono in considerazione, ma uno da dieci o trenta sì, e spesso è uno pseudo-sequel di qualcosa. È frustrante: incontro giovani che, avvicinandosi a Hollywood, confessano il desiderio non di recitare, ma di scrivere sceneggiature. Sanno già che la fama degli attori oggi è poco seria. Forse provano anche panico. Angelina Jolie, Brad Pitt, Jennifer Aniston, non rimarranno. Non sono archetipi come Liz Taylor».
In Ti sto perdendo un personaggio vuole fare un remake di Teorema di Pasolini...
«Nel mio Forza maggiore ho messo una sceneggiatrice schizofrenica che sogna di scrivere un adattamento dalla Coppa d’oro di Henry James, che è come adattare Finnegans Wake. Hollywood è rapace, cerca sempre di avere questo tipo di potere sulle cose. Pasolini era perverso ma in modo molto logico, per questo non è granché asservibile a Hollywood. Una mia fantasia estrema è quella di un regista che fa il remake di un proprio film, usando differenti attori e differente sceneggiatura».
E la crisi dell’industria cinematografica?
«Le persone non hanno più tempo, nemmeno di vedere le fiction in Tv. Quello che fanno è, un anno dopo, ordinare un cofanetto di Dvd e chiudersi in casa per un fine settimana ad “aggiornarsi” sul Dr. House o Grey’s Anatomy guardando di fila tutte le puntate.

L’America in questo momento è capace di fare due cose soltanto: concentrarsi su niente o concentrarsi su qualcosa per pochissimo tempo. Il vero problema, simile a un romanzo di Philip Dick, è che dopo aver visto due o tre puntate di una fiction, ne sei dipendente. Bisognerebbe trattare le fiction come gli stimolanti o i narcotici».

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