L’INTERVISTA IGNAZIO LA RUSSA

«Sarebbe bastato poco. Sarebbe stata sufficiente una presa di distanza, netta ed inequivocabile però, rispetto alle parole del loro organizzatore...».
Invece, ministro La Russa?
«Niente di niente. C'è stato solo un silenzio incredibile da parte della dirigenza democratica».
E alla fine: no Cavaliere, no Festa Pd per il governo.
«Già, ma era inevitabile, anche se io non ho chiesto ai miei colleghi invitati di non andare».
Sicuro di non averlo fatto?
«Sicuro. In realtà mi sono semplicemente accorto che le dichiarazioni di Lino Paganelli (“non abbiamo invitato Silvio Berlusconi perché facciamo una Festa, non un festino”, ndr) stavano scivolando via senza che nessuno le disconoscesse. Ma non ho chiesto ai ministri di rinunciare. Ho posto invece la questione a Dario Franceschini».
Insomma, nessun appello alla diserzione?
«Nessun appello, ma immaginavo sarebbe stato impossibile per loro andare. Una scelta in un certo senso inevitabile ed hanno fatto bene, perché non si può prendere schiaffi e cantare allo stesso tempo...».
Dica la verità, è rimasto un po' deluso?
«Non dall’organizzatore in questione, ma dalla mancanza di senso di responsabilità da parte dei vertici. Capisco le difficoltà contingenti - vedi le vicende interne legate al Congresso, per cui ogni parola detta o non detta fa paura e può venire strumentalizzata dalla corrente opposta - però mi sarei davvero aspettato una condanna chiara, quantomeno per voce del leader».
Deluso, ma anche sorpreso?
«Già. E poi, è sempre la stessa storia».
A cosa allude?
«Non riescono a fare a meno della solita demagogia antiberlusconiana. E dire che all'inizio vedevo di buon occhio la svolta a cui miravano».
Rimpiange ancora il Veltroni prima maniera?
«Indubbiamente. Certo, il cambio di passo immaginato nei primi tempi era inevitabile, per loro, costretti com'erano ad uscire dalla situazione che si viveva ai tempi del governo Prodi. Ma non posso nascondere di aver apprezzato la strategia impostata da Veltroni. La cui linea guida prefigurava la via dell'alternanza - mi auguro ovviamente più lontana possibile - e una partita da giocare senza odio per l'avversario né discriminazioni preventive».
Altri tempi?
«Purtroppo sì. Quello spirito democratico si è perso tutto per strada. E non solo perché sono stati sconfitti alle elezioni politiche. Pesa molto infatti la loro debolezza interna, dovuta, questa sì, all'errore commesso da Veltroni, che immaginava di poter vincere subito al primo tentativo».
Si riferisce all'alleanza con l'Idv di Antonio Di Pietro?
«Proprio così. Dopo la scelta iniziale sfumata, che avrebbe portato ad una reale modernizzazione, grazie ad un confronto sui temi reali, sono finiti adesso sotto il suo ricatto. E oggi, senza avere progetti seri da proporre ai cittadini, continuano a provarci e riprovarci in tutti i modi per vincere senza consenso elettorale».
Provano a dare la spallata al centrodestra senza riuscirci?
«Già, hanno tentato in tutti i modi. Prima il conflitto d'interessi, poi la via giudiziaria, infine il gossip. Hanno provato ogni strada alternativa, ogni scorciatoia possibile. Mai che s'impegnino a vincere con i voti degli elettori. Sarà che già in partenza non hanno fiducia in loro stessi...».
Governo lontano dalla Festa del Pd, dunque. Ma come la mettiamo con gli inviti consegnati a Renato Schifani e Gianfranco Fini?
«Una cosa è il rapporto tra una forza politica e l'esecutivo, un'altra è la posizione delle più alte cariche istituzionali. Entrambi i presidenti del Parlamento non hanno motivo per non andare. Anzi, fanno bene ad onorare l'impegno. In cuor loro, però, sono convinto che condannino come noi quella frase sul premier».
Gli organizzatori riferiscono intanto di non aver ricevuto disdette ufficiali da parte dei ministri.
«Secondo me, sperano ancora che possano partecipare. D'altronde, forse saremmo ancora in tempo, sempre che arrivi la presa di distanza».
Anche la Lega, afferma Giancarlo Giorgetti, potrebbe disertare.
«Pur non essendo ministro, né membro del governo, è stato molto corretto. La sua è una posizione che gli fa onore».
La nuova “querelle” rischia di compromettere la già difficile ricerca del dialogo in chiave riforme?
«Non proprio, ma è un segnale d'allarme. È inutile discutere di riforme se poi non si riesce a prendere le distanze da parole così fuori tema.

Perché è come se qualcuno invita una squadra di calcio in tv e poi, prima della trasmissione, viene insultato il presidente della società».
Insomma, speranze sì, ma poche.
«Il mio augurio è che, archiviato il Congresso, il Pd sappia tornare sul terreno della condivisione. Necessaria, per portare a casa riforme durature».

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