L’INTERVISTA LORENZO LORIS

La grande avventura cominciò trent’anni fa in una cantina di viale Montesanto, a due passi da piazza della Repubblica. A quei tempi Lorenzo Loris era un giovane attore di buone speranze uscito dalla scuola di Strehler. Il nascente Out Off, invece, fondato da Mino Bertoldo e Roberto Traverso, era qualcosa a metà tra una galleria d’arte e un luogo di happening. Anzi, l’arte figurava al primo posto, basti pensare che la cantina ospitava prevalentemente le performance di autori concettuali, da Hermann Nitsch a John Cage. Ma il fuoco sacro della drammaturgia già scorreva, e con essa, l’irrefrenabile voglia di stravolgerla. Da lì alla nuova sede di via Duprè - cento posti a sedere - fino al nuovo palco di via MacMahon, hanno calcato la scena spettacoli sperimentali di respiro internazionale tratti da testi contemporanei come «Orgia» di Pasolini, «Aprile a Parigi» di John Godber, «Una bellissima domenica a Crève Coeur» di Tennessee Williams, «Ritter, Dene, Voss» di Thomas Bernhard. In questi anni, l’Out Off è stato una fucina di ricerca teatrale che ha prodotto giovani attori, registi e autori. Deus ex machina, dopo la stagione diretta da Antonio Sixty (oggi alla testa del Teatro Litta), è Lorenzo Loris che, dopo una breve parentesi da autore, si è dedicato anima e corpo alla regia.
In questi giorni dirige «Una specie di storia d’amore» di Arthur Miller, uno dei suoi autori preferiti. Perché un regista «di ricerca» va a caccia di classici?
«Perché sono il terreno ideale per un "artigiano" come me. Mi sono dedicato a classici moderni come Beckett, a classici contemporanei come Asmussen, a classici storici come Goldoni o Marivaux. È proprio la loro grandezza che permette la ricerca».
Che tipo di ricerca?
«Quella sugli infiniti sottotesti che, tra le pieghe del testo originale, permettono sempre di trovare un filo diretto con tematiche contemporanee. Altrimenti come si spiegherebbe la perenne attualità di un autore come Shakespeare?».
I misteri della parola. Ma nei suoi spettacoli è spesso stravolta anche la scena. In «Aspettando Godot» l’assenza beckettiana è invasa da un cantiere post industriale stile Gomorra...
«Il legame alla contemporaneità è ovviamente anche visivo, ma il cuore del mio lavoro parte sempre da un’operazione di restyling del testo che non viene mai modificato nelle parti sostanziali ma solo in quelle da cui è possibile estrapolare nuove chiavi di lettura per lo spettatore. Ho fatto così anche per la "Serva amorosa" di Goldoni, laddove la lingua era troppo obsoleta. Nel caso di Beckett l’interpretazione è stata possibile grazie allo studio delle due versioni del testo in inglese e francese raffrontate alla traduzione italiana».
Lei ha fatto anche l’attore. Meglio stare sul palco o dietro le quinte?
«Preferisco di gran lunga dirigere una compagnia. Da un grande maestro come Carlo Cecchi, allievo di Eduardo, ho imparato a lavorare molto sulle potenzialità degli attori cercando di farli esprimere al massimo con corpo e voce. Detto questo, qualche volta recito ancora. A giugno, ad esempio, porterò in scena "Gli ultimi rimorsi prima dell’oblio", un testo di Lagarce. Interpreterò la parte di un professore... ».
Cosa pensa dei tagli ai finanziamenti teatrali?
«Le sovvenzioni pubbliche sono fondamentali per la sopravvivenza dei teatri.

È pur vero che esistono delle mele marce ma sta alle commissioni ministeriali valutare la qualità delle proposte. All’Out Off, ad esempio, da Roma non è mai venuto nessuno e se siamo cresciuti a livello internazionale è solo grazie alla critica e al pubblico».

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