«L’intesa spazza via una cultura del lavoro che non esiste più»

«I sacrifici da parte dei lavoratori ci sono, non c’è dubbio. Ma questo è un prezzo molto meno oneroso da pagare rispetto alla chiusura della fabbrica. In quel caso, per molti, non ci sarebbe stato futuro». Giuseppe Volpato, docente alla Ca’ Foscari di Venezia ed esperto del settore automobilistico, saluta con favore l’accordo su Pomigliano. Anche se si tratta di un’intesa priva della firma della Fiom, da sottoporre a referendum.
Professore, il ministro Sacconi invitava i sindacati ad abbandonare i vecchi impianti ideologici in modo da trovare una soluzione per la fabbrica campana: non sembra essere stato del tutto ascoltato...
«Pomigliano ha una storia sofferta. È uno stabilimento nato male, sia sotto il profilo tecnologico, sia dal punto di vista del reclutamento del personale. Va però anche detto che la fabbrica è stata per anni un po’ trascurata: solo nel 2007 sono ripresi gli investimenti per ammodernare la linea di verniciatura. In ogni caso, nonostante il ricambio generazionale, la cultura ambientale è rimasta più o meno sempre la stessa del passato. Fattori che hanno finito per condizionare la trattativa. Alla fine, però, ha prevalso il buon senso».
Fiat chiedeva infatti di voltare pagina. A cominciare dall’assenteismo.
«E ha fatto bene: punte di assenteismo del 33% come quelle registrate in occasione delle partite della Nazionale non dovranno più ripetersi. Anche perché il progetto World Class Manufacturing, applicato da Fiat, affida agli operai grandi responsabilità in tema di qualità del prodotto».
C’è chi dice che a Torino convenga più produrre la Panda a Pomigliano che in Polonia.
«Non mi pare proprio che sia più conveniente. Marchionne ha compiuto un atto di fiducia verso l’Italia. È vero, comunque, che Fiat ha anche una convenienza di tipo politico a mantenere parte della produzione nel nostro Paese».
A Marchionne non si può rimproverare proprio nulla?
«Sulla questione del diritto di sciopero poteva essere più morbido, non c’è dubbio».
Una volta chiusa la partita con Pomigliano e con Termini Imerese, quali sono le prossime sfide per Fiat?
«Si tratta delle sfide più importanti. Quelle che si giocano su mercati internazionali come la Cina, l’India e la Russia. Serve un grosso sforzo, perché Fiat è un po’ in ritardo. Non è messa male sul mercato indiano, grazie al nuovo stabilimento in collaborazione con Tata; in Russia Severstal può offrire supporto, mentre in Cina, dopo il fallimento delle due partership precedenti, deve essere valutata la bontà dell’ultimo rapporto di collaborazione».


Professore, lo spin off dell’auto è una tappa obbligata?
«Sì, perché Fiat ha bisogno di capitale di rischio, pur mantenendo il 30% in capo alla famiglia Agnelli. Le risorse serviranno anche per allargare la gamma di modelli e, magari, fare una politica meno conservativa sull’auto elettrica».

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