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L’Irlanda torna a 150 anni fa Tutti in viaggio verso l’America

Centomila giovani pronti a emigrare da un Paese dove non c’è lavoro. Come a metà Ottocento, quando la Grande carestia provocò l’esodo

L’Irlanda torna a 150 anni fa  
Tutti in viaggio verso l’America

«Quando la Quercia d’Irlanda salpò da Cork nell’ottobre del ’49, pensavamo di arrivare a New York nel giro di una settimana. Ma dopo due giorni di viaggio ci informarono che saremmo andati a Montreal, in Canada. Io avevo solo quaranta dollari, dissi al primo ufficiale, per caso la Irish Shipping mi avrebbe pagato il biglietto del treno da Montreal a New York? No, rispose lui, la società non era responsabile. Le navi da carico, aggiunse, sono le puttane del mare, farebbero di tutto per tutti. Un cargo è come il vecchio cane di Murphy, che fa un pezzo di strada con qualunque vagabondo». Frank Mc Court, «Che paese, l’America», Adelphi editore.

Sessant’anni dopo, la storia raccontata da Frank Mc Court si ripete. Ma a ben vedere è dall’Ottocento che, a fasi cicliche, la storia si ripete, e gli irlandesi si mettono in rotta per le Americhe con il fagotto dell’emigrante sulle spalle. Una volta - e i tempi di Frank Mc Court erano ancora «quella volta» - si partiva per fame, perché era andato male il raccolto delle patate, perché la paga di un operaio non bastava a sfamare una famiglia (dopo che una buona metà era svaporata al pub) e perché gli Stati Uniti, il Canada, visti da Dublino (ma anche dal Polesine o dalla Campania, se è per questo) sembravano davvero la terra promessa. Oggi, di fame non muore più nessuno, in Europa.

E nessuno di quelli in partenza per le Americhe, ora che la Tigre Celtica ha smesso da un pezzo di ruggire viaggia su un piroscafo, in un ponte di terza classe, con una giacchetta rattoppata e una valigia di cartone. Ma la spinta alla fuga, lo spettro che all’alba del 2011 si allunga ancora una volta sull’Irlanda ha lo stesso profilo grifagno di quello che già altre volte buttò la sua ombra su Dublino e Limerick, su Cork, su Galway e su Belfast.

Scappano i giovani, spinti dalla crisi economica, dalle promesse di austerità del primo ministro Brian Cowen e dalla disoccupazione, che l’anno scorso si è attestata al 13,5 per cento. E saranno folla. Racconta il Wall Street Journal che uno dei più accreditati istituti di ricerca di Dublino, l’Economic and Social Research Institute, stima in 100 mila i giovani che tra l’aprile prossimo e fino a tutto il 2012, lasceranno l’Irlanda. Numeri che configurano un autentico esodo, visto che stiamo parlando di una media di mille persone al mese, ovvero del 2 per cento della popolazione dell’intera isola.

Dove andranno? Andranno nel solito posto, dove già hanno fratelli, zii e una valanga di cugini. Non sarà più la statua della Libertà, non sarà più Ellis Island, ad accogliere questa nuova ondata di immigrati. Essi sbarcheranno verosimilmente in un aeroporto al quale hanno dato il nome di un loro celebre conterraneo che è stato addirittura presidente, e nessuno li guarderà stavolta come dei pezzenti. Però sarà lo stesso un’epopea, come quella che i loro progenitori hanno tracciato negli annali della storia americana con il loro lavoro, il loro genio, la loro capacità di sacrificio, la loro specificità, i loro celebri poliziotti e i loro malandrini. Pare che oggi siano 44 milioni (su una popolazione di 300 milioni) i cittadini americani di origine irlandese. Sicché non sarà ozioso domandarsi che cosa sarebbero stati gli Usa senza la loro massiccia presenza; senza quella poderosa iniezione cattolica nel gran corpo protestante di una nazione che mutò pelle, e carattere, grazie al melting pot, a quel crogiuolo in cui tutti si mescolarono; ma in cui gli italiani, gli ebrei, gli irlandesi (nel bene e nel male) scrissero a lettere incancellabili la storia del più grande Paese del mondo.

Furono loro, gli ultimi arrivati, quelli con le pezze al culo che diedero vita alle grandi organizzazioni criminali che si affermarono al tempo del proibizionismo. Ma sarà anche il caso di ricordare che l’Irish Mob, la mafia irlandese, era radicata a Boston, a New York, a Cleveland e a Chicago prima ancora che la parola Mafia, e il suo corredo di Padrini, risuonasse sul suolo americano.

Gente svelta, duttile, intraprendente, come quel famoso trafficante di liquori che faceva di nome Kennedy, ed era il padre di una Dinasty politica piuttosto importante che cominciò con uno che si chiamava John, passò per uno che si chiamava Robert e si chiuse, un po’ malinconicamente, con uno che si chiamava Ted.

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