L’Italia che vince la crisi con l’aroma del caffè

SUCCESSI L’azienda esporta in 109 Paesi e detiene il 10% del mercato mondiale

nostro inviato a Belforte

del Chienti (Macerata)

Quando ti riceve in azienda, Nando Ottavi ti offre un caffè, ma anziché chiedere a un assistente di portarlo, come avviene in ogni ufficio, si alza e ti invita a seguirlo. Entra in uno dei bar aziendali, gira dietro il bancone e con fare da barista provetto te lo prepara. Poi con lo sguardo divertito, mentre bevi la tazzina, chiede: «È buono?». Sì, è buono, anzi squisito. Lui sorride soddisfatto. Se non lo conoscessi penseresti che è un industriale del caffè e invece Ottavi è un produttore di macchine per espresso e cappuccino da bar o ristorante. Un mercato di nicchia, che non è stato risparmiato dalla crisi economica; eppure alla Nuova Simonelli non vedi volti preoccupati e lo stesso Ottavi, che è il presidente nonché amministratore delegato, non ha perso il buon umore.
La società ha chiuso il 2008 con un fatturato di 27 milioni di euro in crescita del 10,9% e prevede di terminare il 2009 sugli stessi confortanti livelli del 2007. Nessuno è stato messo in cassa integrazione e negli ultimi mesi ha ricominciato ad assumere. È una delle aziende più patrimonializzate delle Marche e, forse, d’Italia, con un capitale netto pari al 72,8% degli attivi. Questo significa che non deve dipendere dalle banche, tanto meno è costretta a invocare puntelli statali. Conta solo su se stessa, come fa dal 1969, l’anno della svolta. Il cortese signore che ci ha preparato il caffè ha 63 anni, ha una chioma bianca pettinata con cura, indossa un abito elegante e da qualche mese presiede Confindustria Macerata; ma una quarantina d’anni fa era il perito meccanico di una piccola azienda artigianale, talmente piccola che aveva clienti solo nelle Marche, fondata da Orlando Simonelli, che aveva due figlie ma nessuna interessata a subentrargli. Giunto in età avanzata avrebbe potuto vendere a un concorrente o chiudere, invece propose a Ottavi, che era sveglio nonché suo compaesano di Cessapalombo, di rilevarla assieme ad altri due dipendenti. Non la regalava, sia chiaro, la vendeva. Un’operazione bizzarra per quegli anni, tanto più che i suoi dipendenti erano di fatto degli operai e non disponevano del capitale necessario. Ma accettarono, si indebitarono soffrendo non poco i primi anni per rimborsare i prestiti di banche molto scettiche sulle loro possibilità. Fu allora che impararono la prima lezione: mai esporsi alle pressioni degli istituti di credito, per questo oggi decisero di investire sistematicamente gli utili nell’azienda. Ma per riuscirci bisognava prima crescere. Come? Puntando sull’innovazione tecnologica e sul design. La Simonelli diventò Nuova Simonelli proponendo macchine efficaci e belle da vedere nei bar non più solo delle Marche ma di tutta Italia e, a metà degli anni Settanta, di tutto il mondo. Altra anomalia. «A quell’epoca l’espresso non era affatto conosciuto nel mondo. Lo si beveva solo in Italia. Era dura convincere un ristorante americano o un bar giapponese a comprare una macchina come la nostra. I nostri agenti commerciali erano dei missionari dell’espresso», racconta Ottavi. A molti sembrò un azzardo, in realtà era la strategia giusta. Oggi la Nuova Simonelli, che dal 2001 ha acquisito anche il marchio torinese Victoria Arduino, detiene il 10% del mercato mondiale, esporta in 109 Paesi e realizza l’80% delle proprie vendite all’estero, eppure non si è mai mossa dalle splendide colline del Maceratese. Ha abbracciato la globalizzazione, ma è rimasta straordinariamente italiana. Quando, cinque anni fa, ha dovuto ampliarsi, anziché andare nell’Europa dell’Est o in Asia, ha costruito il nuovo stabilimento a pochi chilometri da quello vecchio e continua a lavorare esclusivamente con fornitori del nostro Paese. Il suo è Made in Italy al 100%. «E questo fa la differenza: possiamo controllare la produzione e la qualità dei pezzi forniti dai terzisti», spiega camminando tre le linee di assemblaggio. «La qualità costa anche in Cina, tanto vale rimanere nelle Marche». E far crescere talenti italiani, investendo il 7% del fatturato nella ricerca. Ottavi non ha fatto l’università, ma il 40% dei suoi 60 dipendenti è costituito da laureati e il 50% da diplomati. Sono colti e giovani con un’età media è di 32,6 anni.
«L’importante è essere solidi, guardando sempre al futuro», afferma Ottavi, che contrariamente a molti imprenditori non teme il ricambio generazionale. I suoi figli, come quelli dei suoi due soci storici, lavorano nel gruppo, che però dal Duemila si è dato una struttura meno familiare e più manageriale. «Non è giusto che il destino dell’azienda dipenda da loro.

Se saranno all’altezza potranno continuare la tradizione, altrimenti toccherà ai dirigenti che già lavorano con noi», afferma, mentre ti parla del campionato mondiale dei baristi, che si svolge con le sue macchine, e illustra le caratteristiche tecniche dell’ultima scoperta. Entusiasta e previdente, eppur umile, come quarant’anni fa. E orgogliosamente marchigiano.
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