Franco Ordine
nostro inviato a Livorno
Caro Roberto Donadoni, uno col suo passato di talento naturale e col suo istinto di uomo semplice e concreto, forse, doveva aspettarselo. Doveva aspettarsi che la discussa investitura di ct della nazionale, successore di Marcello Lippi campione del mondo in trionfo a Berlino, venisse accompagnata all’esordio nella sua tana nemmeno molto fidata di Livorno da fischi e lazzi, da un coro per niente ingeneroso di censure e da un paio di sberle sul muso rimediate dalla Croazia. Doveva aspettarselo e non solo perché in passato, pure a Enzo Bearzot capitò lo stesso destino (sconfitta a Roma, in amichevole, dalla Svizzera nella prima sfida seguita al trionfo spagnolo). Di questi tempi, il calcio italiano non è una fabbrica a tempo pieno di buoni calciatori, è un’officina semmai dove è possibile preparare qualche exploit, ma col contributo dei muscoli migliori e anche di forti motivazioni. Alle spalle c’è il vuoto o quasi. E l’invasione degli stranieri non è un capriccio. Scegliere perciò, come è successo, per necessità più che per vocazione, d’accordo, un gruppetto di improbabili azzurrabili trasformati in una rappresentativa di ferragosto senza nessun futuro, è stata una imperdonabile leggerezza, non un errore fatale, un peccato di vanità della federcalcio. Con tutto quel che segue.
Più discutibile di tutte le altre è la scelta di trascinare il carrozzone azzurro qui a Livorno dove la mala pianta dell’estremismo di sinistra ha contagiato tutta la serata, un delicato pensiero riconoscente nei confronti della città, della squadra e dello stadio, ricambiato da cori ostili e fischi.
Caro Donadoni, la riconoscenza non è del mondo del calcio e neanche di certi ultrà più interessati alla salute di Fidel Castro che alla riuscita del suo esordio in azzurro. E neanche il suo ex presidente, Aldo Spinelli, preoccupato da qualche contestazione annunciata e dal gelo di Lucarelli, ha avuto il buon gusto di presentarsi in tribuna: l’ospitalità dovrebbe essere sacra e invece il sordo rancore ha avuto la meglio. Che tristezza, caro Donadoni. Tutto il resto, caro ct vestito di nuovo, è una conseguenza inevitabile. Perché solo in un clima così deprimente e poco amichevole, si può spiegare la cattiva riuscita di una squadra improvvisata al cospetto di un rivale impegnato per almeno un tempo a divertirsi col «torello» prima di infliggere a quella difesa squinternata un paio di lezioni. La prima, su cross di Seric e testa di Da Silva, brasiliano naturalizzato, denuncia l’inadeguatezza di Falcone e l’impreparazione di Amelia, il portiere di casa, terzo in ordine di graduatoria a Duisburg. La seconda mette sotto la lente d’ingrandimento il mestiere ridotto del portiere amaranto, tradito da un sinistro al veleno di Rapajc. Tutti gli altri della compagnia stanno a guardare, come sgomenti dinanzi a quell’uno-due che è peggio di un cazzotto al mento. Non solo. Ma appena c’è un accenno di rissa, saltano i nervi a Liverani e Terlizzi: anche di questo elemento bisogna prender nota.
Caro Donadoni, non se la prenda a male per i titoli di questa mattina in edicola e le critiche severe, le manderanno di traverso la colazione nel suo albergo preferito di Tirrenia e le faranno capire che così va la vita di un ct alle prime armi, costretto a scoprire sul campo che Rocchi e Liverani sono due delle poche presenze degne della casacca azzurra, mentre gli altri sono da spedire a casa senza molti rimpianti.
L’Italia di Donadoni completa la figuraccia
Squadra stesa da due gol nel primo tempo. Amelia colpevole
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