L’Italia, i Savoia e l’oro dei Borboni

Caro Granzotto, i Savoia non spogliarono Francesco II di Borbone di tutti i suoi beni «fino all’ultimo tornese», come lei afferma. Circa i Borbone di Napoli, fu il Governo del «Dittatore» Garibaldi a deliberare l’avocazione dei beni di quei sovrani (decreto del 12 settembre 1860). Disposizione che non venne più revocata dal Regno d’Italia perché Francesco II da Roma, come è noto, sosteneva con denari il cosiddetto «Brigantaggio» (a questo proposito non mi sembra che Umberto II abbia sostenuto delle Insorgenze da Cascais). Morto Francesco II, la moglie Maria Sofia continuò a complottare dalla Francia, tanto che Giovanni Artieri l’accusa nella sua monumentale «Cronaca del Regno d’Italia» di essere coinvolta nell’attentato Passanante. Insomma, non venne restituito più niente. Si ha conoscenza invece di aiuti finanziari da parte di Umberto I a singoli membri dei Borboni di Napoli, in difficoltà economiche (Conte di Capua, Conte di Trani). Fu Minghetti a opporsi in particolare alla restituzione dei beni a Maria Sofia. Traggo tutte queste notizie dal bel libro di Mario Viana, «Il Re costava meno», Superga editrice, Torino, 1960.
Giulio Vignoli - Università di Genova


Che la corte dei Savoia costasse meno di quella di Giorgio Napolitano è un fatto, caro professore. Se canta carta, figuriamoci le cifre. Però è anche un fatto che col Meridione e i Borbone il Padre della Patria ci andò giù con mano pesantissima (e rapacissima). Certo, il decreto di confisca dei beni del Regno e della famiglia reale reca la firma di Garibaldi. Ma Garibaldi mica era a Napoli a titolo privato. E quando passò il testimone a Vittorio Emanuele, questi si guardò bene dal revocarlo, quel decreto (provò a farlo più avanti, offrendo a Francesco II la restituzione del patrimonio di famiglia in cambio della rinuncia ad ogni pretesa sulle Due Sicilie. «Il mio onore non è in vendita», ebbe come tutta risposta). Non so se lo si può definire furto, ma come altrimenti chiamare la confisca dei 4 milioni di ducati che costituivano la dote di Maria Cristina di Savoia, madre di Francesco II? O anche - faccio solo degli esempi, professore, abbia pazienza - l’esproprio della villa di Caposele, che Ferdinando II acquistò con proprio peculio nel 1852 per farne una residenza estiva e che lasciò in testamento al figlio (il quale vi firmò poi la resa di Gaeta, in pratica la fine del Regno delle Due Sicilie)? Sì, certo, l’intrepida Maria Sofia per qualche tempo brigò contro i Savoia (e vorrei vedere), Francesco diede il suo appoggio - morale più che materiale: non aveva una lira - agli insorgenti. Ma se questo fu il pretesto per incamerare oltre che le intere sostanze dello Stato più ricco dell’Italia d’allora anche le fortune (ivi compresi i cucchiaini da caffè) di chi vi aveva regnato per 127 anni, c’è quanto meno da rimanere sorpresi. Intendiamoci, continuo a capire: le guerre risorgimentali costarono una barca di soldi e le casse del Regno di Sardegna, prossimo a diventarlo d’Italia, erano vuote. E bisognava riempirle.

Però utilizzare quei soldi anche per elargire - sia pure per interposto «dittatore» - un vitalizio mensile di 30 ducati alla madre e una gratifica di 2 mila ducati, cifra assai consistente, alle sorelle di Agesilao Milano, l’autore dell’attentato a Ferdinando II, be’, quello se lo poteva risparmiare. O se proprio intendeva rendere omaggio ai familiari di un regicida mancato, quei soldi Vittorio Emanuele doveva scucirli di tasca propria.

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