L’Italia mischia le carte: è l’era del burraco

Felice Manti

«Il signore si vede al tavolo da gioco». I nostri nonni pensavano, non a torto, che un mazzo di carte potesse fare la differenza tra l’aspetto e la vera indole, il portafoglio e il cervello. Sta di fatto che con l’arrivo dell’estate, del tempo libero e quei lunghi pomeriggi afosi e noiosi, ormai orfani dell’abbuffata mondiale, il «signore» che è in noi si risveglia. E comincia la lunga stagione di avvicinamento al Natale, vero trionfo di donne e di re, di cuori o di bastoni. Il bello delle carte (40 o 52, nella variante napoletana o francese) è che in fondo ci sanno giocare tutti. Chi meglio, chi peggio. Si comincia da piccoli, guardando i nonni o gli zii scommettere qualche spicciolo dopo la cena di Natale o il pranzo di Ferragosto. Innamorarsi di questo rito, fatto di messaggi in codice, postura e sguardi, è un attimo.
Il gioco è lo specchio della nostra indole. C’è il giocatore paziente, che preferisce rinviare la «presa» facile per ambire a un boccone più ghiotto. E c’è quello vorace, che si accontenta del poco. Perché alla fine non si sa mai, la memoria a volte inganna, e i trappoloni non sempre riescono. È il bello delle carte, che da secoli affascinano l’uomo della strada e il grande intellettuale. E non sempre è una questione di soldi: spesso «la posta» non è di ferro o di carta, ma è orgoglio, rivalsa, voglia di riscatto. Merce rara da riscuotere sul lavoro o in famiglia.
Le carte possono dunque essere un mezzo per il riscatto sociale. C’è chi di carte è morto, dopo aver vissuto. Lo sapeva bene il Jack Dawson di Titanic, che nel film di James Cameron aveva le sembianze di Leonardo di Caprio. Un ragazzino spiantato e sbruffone, che quel biglietto di terza classe che lo avrebbe ucciso se l’era guadagnato a carte, sul porto di Southampton. Lo sapeva benissimo anche quell’Alberto Sordi che voleva giocare a fare il conte, e che ha imparato a fare «il signore al tavolo da gioco» da chi il mestiere di nobile lo conosceva bene, per poi tornarsene alla vecchia vita. Il mestiere delle carte, la dannazione dello squattrinato Vittorio De Sica, il «vero» conte lo conosceva forse un po’ meno.
Dall’ombrellone ai bar, le carte sono tornate ad essere un fenomeno sociale, aggregativo, dove non è il portafoglio a fare la differenza. Le partite di Scala 40 nei bar di Milano o di una Napoli sembrano in via di estinzione (ma qualche giovanissimo che lo fa c’è ancora, vedi Lucio del Grande fratello 5), mentre in Italia regge la moda degli chiccosi tornei di Bridge di desichiana memoria, al quale recentemente ha preso parte anche il fondatore di Microsoft Bill Gates (con poca fortuna). L’astro nascente è il Burraco, che di Canasta e Bridge è figlio illegittimo. Partito dalla Puglia, ha preso piede un po’ ovunque. Ed è tutto un fiorire di tornei e manifestazioni a premio. Un modo migliore di tanti altri, per chi ci ha creduto sin dall’inizio, per tenere unita la famiglia e trovare nella moglie, nella figlia o nel cognato buoni discepoli che poi si rivelano i peggiori avversari o i migliori compagni.
Scopa e Briscola rimangono sempreverdi da spiaggia anche se un po’ démodé, perché il pubblico giovane, quando si può, si divide tra il Poker e il Tressette. Il primo ha dalla sua il vantaggio di essere uno dei pochi giochi dove la sorte e le carte che si hanno in mano contano spesso meno della propria capacità di «vendersi» e di millantare un punto vincente. La variante a stelle e strisce (52 carte anziché 28 o 32, due carte coperte a testa) si chiama Texas Hold’em, ed è stata idolatrata dalla cinematografia moderna nel film The Rounders, con Matt Damon che alterna i libri di legge alle partite clandestine, e più di recente dalle trasmissioni del World Poker Tour, il torneo di Hold’em che attraversa i più importanti Casinò statunitensi. Iscriversi costa relativamente poco, rispetto al milionario montepremi finale. E ci si può imbattere in avversari famosi come James Woods, il Maximilian Bercovicz di C’era una volta in America.
Anche il Poker «tradizionale» ha dalla sua una schiera di fan accaniti, una filmografia di tutto rispetto, con in testa i due film di Pupi Avati (Regalo di Natale e Rivincita di Natale), e una serie di varianti a carte scoperte molto diffuse (Teresina). Vista l’alta tensione che di solito accompagna le varie mani, è preferibile giocare lontano dalla spiaggia, e soprattutto da occhi e orecchie indiscrete che possono spezzare la dinamica e influenzare le strategie.
Chi non teme confronti è un altro evergreen come il Tressette: le combinazioni di gioco possibili e le varianti, come quella «a perdere» rendono il Tressette affascinante. La sua patria è Salerno, dove ogni anno si svolgono memorabili tornei, con giocatori provenienti da tutta Italia. Molto diffuso anche in Lombardia e in Calabria, dai giocatori «nobili» è considerato una specie di Bridge dei poveri. Bisogna rispondere con il «palo» di chi gioca per primo, e scoprire che gli avversari ne sono sprovvisti («piombo») significa avere la partita in mano.

Giocare con un avversario poco esperto non è divertente, mentre un buon giocatore, con una pessima mano, è in grado di limitare i danni. Diversamente, il rischio figuraccia è altissimo. E quando in palio non ci sono soldi, ma dignità e prestigio, la sconfitta non ha prezzo.

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