L’Italia torni a fare politica in Europa

Egidio Sterpa

Non c’è commento che spieghi meglio il «no» franco-olandese alla Costituzione europea di quello di Jean-Claude Juncker, presidente di turno dell’Unione Europea: «L’Europa non fa più sognare, e così com’è oggi non si fa più amare». C’è voluto mezzo secolo per infrangere il sogno di Adenauer, De Gasperi, Schumann. Gli epigoni ce l’hanno messa proprio tutta per riuscirci. Ne è venuta un’Europa che odora di cipolle e di letame di vacche, senza più ideali, persino disattenta alla propria storia e origini culturali, stretta dentro regole amministrate da burocrati, prona a velleità e interessi spesso poco nobili, umiliata dai colossi del mondo, ieri dall’Urss e dagli Stati Uniti, oggi da giganti d’Oriente usciti da secolari inferiorità. Eccola, sì, l’Europa che non fa più sognare e quasi nessuno più ama. Si direbbe che oggi incarni esemplarmente il declino che più di 80 anni fa pronosticò Spengler nel suo Il tramonto dell’Occidente. Sarebbe tragico se si tornasse nell’Europa delle frontiere e delle cancellerie sempre in contenzioso e a rischio di conflitti. Una follia, addirittura una catastrofe. A chi servirebbe una simile marcia indietro? Non alla protervia della Francia di Chirac, non alle ambizioni della Germania di Schröder, neppure alla scettica Inghilterra di Blair. E chissà quali cataclismi geopolitici ne verrebbero nel resto del continente. Possiamo immaginare gli effetti negativi soprattutto nei Paesi ex satelliti dell’Est, che all’Europa hanno affidato molte delle loro speranze. Nessun dubbio: l’Europa ha bisogno d’essere ripensata e rilanciata. Il che vuol dire una nuova e più robusta strategia, una Costituzione più confacente alla storia dei popoli e alla realtà contemporanea, e naturalmente regole consone agli interessi veri degli associati, non guastate dalle distorsioni e dalla miopia degli euroburocrati, senza quelle irrazionali restrizioni che hanno reso insopportabile la vita comunitaria.
È il momento che l’Italia, socio fondatore fin qui sempre leale verso i partner, trovi il coraggio e l’intelligenza di pensare e avanzare sue proposte. Non bisogna temere di prospettare una leadership. Potrà non piacere a taluni, Parigi e Berlino per esempio, ma non è detto che manchino comprensione e adesioni in altri partner, che certamente avvertono la necessità e l’urgenza di un rilancio di strategie, ideali e programmi. L’amico Gustavo Selva, frequentatore per più lustri dei mondi europei e ora presidente della Commissione esteri della Camera, ha rilevato giustamente la debolezza dell’Italia nelle istituzioni europee. È il risultato di una nostra più che trentennale politica assai trattenuta, quasi passiva, fatta di molta retorica europeista con scarsa attenzione invece ai risultati, mentre, com’è abbastanza noto, altri Paesi hanno saputo badare ai propri interessi nazionali. Non c’è stata insomma una nostra presenza attiva e proficua nell’Unione. Abbiamo avuto due presidenti di commissione (Malfatti nel 1970, che si dimise dopo due anni, e Prodi nel 1999, che non ha certo privilegiato gli interessi nazionali), mai un presidente del Parlamento di Strasburgo è stato italiano e tutt’altro che vantaggiosa è la nostra partecipazione ai vari uffici.
È una grande partita diplomatica e politica che si prospetta per l’Italia in questo momento di crisi comunitaria. Tra giugno e luglio ci sono incontri importanti: Consiglio europeo, Ecofin e altre occasioni. Ebbene è da lì che può partire una intelligente e ferma azione italiana. Una buona squadra c’è (La Malfa, Fini, Siniscalco, Frattini), che può provare a trarci dalla condizione di inferiorità in cui fin qui ci siamo venuti a trovare.

È venuto il momento di tentare.

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