Ogni tanto torna d’attualità la questione della lingua italiana nel mondo. Nel 2002 l’idioma parlato nella nostra penisola si scopriva, a sorpresa, il quinto più studiato del pianeta, dopo l’inglese in testa di gran lunga e il francese inarrivabile ma in lotta per il terzo posto con lo spagnolo e il tedesco. Soprattutto in virtù del grande successo che riscuoteva nei Paesi del Mediterraneo, dove nel 2001 avevano frequentato i corsi organizzati dagli istituti italiani di cultura oltre 18mila persone, con incrementi rispetto all’anno precedente che toccavano il 15 per cento, come nel caso della Turchia. Da allora, anche grazie all’impegno della Società Dante Alighieri e degli istituti italiani di cultura, la situazione è migliorata. Per esempio, da una ricerca condotta qualche mese fa in Giappone sulle aree metropolitane di Tokyo e Nagoya risulta che studiano la nostra lingua quasi semila studenti delle superiori e quasi cinquemila negli Open college, ai quali vanno aggiunti i circa duemila che frequentano le altre università dove si tengono corsi di italiano.
Melodramma Delle possibilità che la nostra lingua ha di diffondersi ulteriormente nel mondo ha parlato lunedì Francesco Ernani, Soprintendente del Teatro dell’Opera di Roma, nella sua visita alla sede centrale della Società Dante Alighieri. «La richiesta di musica italiana all’estero è stata sempre ed è ancora oggi molto alta - ha detto Ernani -. In particolare l’opera, che ha saputo conquistare l’ammirazione di Paesi in cui non era conosciuta, è una delle carte di credito più importanti per rendere il nostro idioma una lingua franca». «Lo Stato dovrebbe sostenere orchestre, cori e corpi di ballo per portare avanti un disegno di crescita culturale della collettività in ambito di educazione musicale» ha detto ancora Ernani, che ha anche auspicato «un sistema di tassazione in grado di consentire al privato di investire nella cultura». Ma perchè la passione per la musica italiana è così diffusa in tutto il mondo? Come si spiega che dalla Mongolia sia giunta la richiesta di costituire un comitato della Dante Alighieri solo per conoscere le parole delle opere liriche italiane? «In un testo del 1785 sulla rivoluzione dell’opera italiana - ha spiegato Ernani – il gesuita Stefano Arteagas si sosteneva che l’opera italiana, cioè la musica che accompagnava il canto, fosse la più adeguata e che la nostra lingua fosse la più adatta per gli accenti che caratterizzano il linguaggio e le parole rispetto, per esempio, al canto francese o a quello tedesco».
Immigrazione e Formula Uno Ma la sorte dell’italiano nel mondo dipende non solo dalla promozione di un potente e fascinoso mezzo culturale quale è indubbiamente il melodramma dei nostri grandissimi maestri, da Claudio Monteverdi a Giuseppe Verdi e Giacomo Puccini, ma anche dalla capacità di gestire l’attrattiva del nostro Paese sul resto del Pianeta e in particolare sul mercato del turismo, soprattutto quello culturale, e sul mercato del lavoro e dell’istruzione, possibilmente di alto livello. "L'italiano non è la lingua della comunicazione universale come l'inglese: è una lingua di cultura, che può forse diventare una lingua franca, per esempio nel Mediterraneo, da dove vengono tanti dei nostri immigrati". Così ha scritto il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, nella prefazione all’ultima ricerca 'Formare nei Paesi d'origine per integrare in Italia. "Viviamo in un'epoca di cambiamenti dei valori, nella vita quotidiana e nel comune sentire, che sfuggono alla percezione globale. Sappiamo quanto arduo sia rispondere in termini legislativi a problemi così grandi di integrazione e convivenza, ma la conoscenza della lingua -annota il capo dello Stato - può molto". Insomma, si tratterebbe di replicare il “modello” della Formula Uno, il grande circo mondiale dell’automobilismo sportivo nel quale la nostra lingua è diffusa complici i meccanici italiani che lavorano in molte scuderie e la formazione “kartistica” dei tanti piloti che da giovani hanno corso con i kart in Italia, vero paradiso delle “macchinine”.
Il paradosso Ma nel futuro internazionale dell’italiano c’è un paradosso: può tornare ad essere l’idioma delle elite coltivate dell’intero pianeta ma può anche rinverdire, attraverso la sua diffusione nei Paesi geograficamente più vicini a noi, le fortune di quella koiné mercantile che fu la lingua franca del Mediterraneo, quel miscuglio di castigliano, catalano, genovese e veneziano con forti influssi siciliani, greci, turchi e arabi in uso nei porti dell’ex Mare nostrum dall’epoca delle crociate fino agli albori del XX Secolo. Una lingua così definita dagli arabi, per i quali “franchi” erano tutti gli europei. Una lingua che aveva più di un nome: i francesi la chiamavano “Petit Mauresque” (piccolo moresco) e gli arabi in vari modi fra i quali “Sabir” (che è una storpiatura del catalano saber, ovvero sapere). E aveva cento varianti.
Ma che serviva alle esigenze del commercio e della marineria e affascinava viaggiatori e letterati, come Molière, che nel suo “Borghese gentiluomo” infilò una breve filastrocca in lingua franca intrisa di saggezza senza tempo: “Se ti sabir, ti respondir/ se non sabir, tazir tazir”.
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