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L’Occidente apra gli occhi

La morte per fucilazione di Fabianus Tibo, Marinus Riwu e Dominggus da Silva, i tre cristiani cattolici giustiziati l’altro ieri a Palu, nell’isola indonesiana di Sulawesi, aggiunge i loro nomi a un martirologio che in Indonesia già da diversi anni non cessa di allungarsi. Al termine di un processo iniquo, caratterizzato dal rifiuto del tribunale di ammettere a deporre numerosi testimoni favorevoli agli imputati, i tre erano stati condannati alla pena capitale con l’accusa di aver ucciso o fatto uccidere decine di musulmani durante gli scontri cosiddetti «inter-religiosi» avvenuti nel 2000 nella regione di Poso.
Gli scontri di Poso, costati la vita a centinaia di persone, erano iniziati con l’attacco di integralisti islamici a chiese e altri edifici di culto nonché ad aggressioni conclusesi con il ferimento o la morte di numerosi cristiani. Nessun musulmano è stato fino ad oggi condannato per questi crimini. In tale prospettiva il processo, la condanna e l’esecuzione di Fabianus Tibo, Marinus Riwu e Dominggus da Silva appaiono chiaramente per ciò hanno voluto essere: un gesto di violenta intimidazione nei confronti della minoranza cristiana.
Oltre a essere il più grande Paese musulmano del mondo, fino a tempi recenti l’Indonesia veniva accreditata come sede di un islam molto tollerante. In realtà ciò non è mai stato del tutto vero, e sempre meno lo è divenuto negli ultimi anni. Si può in effetti parlare di una persecuzione anti-cristiana strisciante che ogni tanto culmina in veri e propri pogrom: tali sono infatti quelli che, con indegna reticenza, le grandi agenzie e catene televisive internazionali amano invece chiamare scontri «inter-religiosi».
Tra l’uno e l’altro di questi pogrom trascorrono periodi che tuttavia non si possono definire propriamente tranquilli se si considera che ne fanno parte sia ripetuti attacchi a chiese sia aggressioni e vessazioni fino a delitti come, alcuni mesi or sono, l’assassinio di due studentesse liceali cristiane fermate mentre si recavano a scuola e decapitate sul posto. Si tratta senza dubbio di episodi che accadono in località e province diverse di un immenso Paese, ma che sono nondimeno un tragico sintomo di un generale clima di grave intolleranza.
I tre cristiani giustiziati l’altro ieri a Palu sarebbero già dovuti andare davanti al plotone di esecuzione lo scorso 12 agosto. Un appello del Papa e l’intervento in loro favore di molte personalità di ogni parte del mondo, fino a quello recente del nostro ministro degli Esteri, sono bastati solo a ritardare l’esecuzione della condanna.
In molti Paesi dell’Asia i cristiani sono oggi discriminati e anche, come si vede, perseguitati. Ciò accade da diversi anni anche se fino ad oggi il fenomeno è stato in larga misura ignorato dai grossisti dell’informazione. Volendo sperare che da questo male possa venire del bene, auguriamoci che la morte dei tre cristiani di Palu, e la testimonianza esemplare che hanno dato nella circostanza, aiutino finalmente l’opinione pubblica internazionale a scoprire questo stato di cose. Ciò potrà essere di aiuto e di sostegno a chi è nella prova, anche se purtroppo non potrà di certo garantire che fatti del genere non si ripetano più.

Ovunque il cammino verso la libertà, e in particolare verso la libertà di fede, è stato e viene segnato dal sangue dei martiri.

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