Cultura e Spettacoli

L’«Orfeo» di Pizzi, un rito antico ma senza età

A Madrid grande successo per l’opera di Monteverdi. A Valencia curiosa «Turandot» con un pessimo regista cinese

da Madrid

Ogni tanto fa bene oltrepassare il confine e riscoprire che il teatro d’opera italiano è un patrimonio prezioso e una grande attrattiva per tutti. In Spagna, per esempio, nei giorni scorsi è stato celebrato con travolgente successo in due città diverse proprio nelle due opere estreme della sua storia: l’Orfeo di Monteverdi che ne ha segnato la nascita nel 1607 e la Turandot di Puccini, ultima grande opera popolare, del 1924.
Al Teatro Real di Madrid Pier Luigi Pizzi ha fatto sorgere dal nulla con magìa elementare il Palazzo dei Gonzaga a suon di ottoni e battito di tamburi e grancassa, con banditori e tedofori, come in un rito storico infuocato e solenne. Appena davanti a noi c’erano gli strumentisti de Les Art Fleurissantes, divisi in due gruppi, e quando il mondo del Seicento nascente s’è manifestato, William Christie ha dato l’attacco e la favola antica ha preso vita con l’allegra festa di nozze di Orfeo ed Euridice e la tragica notizia della morte di lei e il dolore struggente dello sposo. Ricchezza di colori, spericolatezza di ritmi, fantasia nei fascinosi costumi firmati, come le scene, dallo stesso regista. Poi Orfeo decide di raggiungere Euridice nell’Averno e nel cortile del palazzo avanza lenta un’impressionante barca dei morti, e lo spettacolo si spoglia: lo stesso Orfeo non ha che una tenuta scura, camicia e pantaloni, come dire niente. Poi la prova fallisce, svanisce la sposa e tutto è nudo nel cortile: appare Apollo, chiama a sé Orfeo, e allora escono tutti in festa, giovani con abiti e danze d’oggi, felici.
Ci sono punti deboli: la voce gridacchiante dell’atletico protagonista, Dietrich Henschel, incapace di delibare il testo meraviglioso e di ben pronunciarlo; e anche la sbrigatività declamatoria inaspettata di Sonia Prina; e punti forti, Antonio Abete, le luci di Sergio Rossi. Ma accade un fatto raro e decisivo: non c'è un istante di cedimento. È come un musical sublime, che ha insieme 400 anni e nessuno. A Valencia, tra le pareti bianche impazzite di luce dell’architettura di Calatrava, un malaccorto regista cinematografico cinese, Chen Kaige, e un gustoso suo compatriota scenografo, Liu King, immettono nella grande sala dall’acustica risonante la Pechino sognata da Puccini. La direttrice del teatro, Helga Schmidt, gli dedica nel cinquantesimo della nascita un festival articolato. Intanto ha fatto crescere un’orchestra di alto profilo, che qui risponde all'arte e al gesto infallibile di Zubin Mehta.
I due protagonisti, Maria Guleghina e Marco Berti, senza troppo riguardo verso Gozzi che inventò la crudele favola e verso Propp che nelle favole trova tante rivelazioni interiori, lanciano grandi acuti in sfida fonica, pur senza volgarità; fra gli altri ci sono un Previati spiritoso e il giovane basso Alexander Tsimbaliuk, miniera di vocalità scura affascinante. Due pubblici festanti, differenti fra loro, ma vitali.

Chissà i posteri se avranno ancora storici e studiosi; sarebbe curioso sapere a quali conclusioni arriverebbero su un fenomeno come l’opera, che vien sempre guardato con sospetto dalla cultura ufficiale e dall’incultura diffusa e che continua a sprizzare in tutto il mondo idee e vitalità felice.

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