Politica

«L’orgoglio di raccogliere il testimone»

da Palermo

Quando un'autobomba, la prima utilizzata da Cosa nostra per uccidere un magistrato, dilaniò il 29 luglio del 1983 davanti alla sua abitazione suo padre, il giudice Rocco Chinnici, lei era giovanissima. Giovanissima ma già in magistratura «perché - spiega - era quasi naturale, avevo respirato legalità sin dalla culla».
La scelta era precedente, ma quel dramma devastante ebbe comunque un'influenza determinante: «Superato - ricorda - il momento traumatico, lo sbandamento, la morte in quel modo di mio padre finì col rafforzare la mia decisione di fare il giudice. Mi sono detta che se c'era ancora chi moriva, come mio padre, per la legalità e la giustizia, allora era necessario che ancora più persone si impegnassero per l'affermazione della legalità e della giustizia. A cominciare proprio da me».
Caterina Chinnici è procuratore della Repubblica presso il tribunale dei minori di Caltanissetta. Il dramma di quel maledetto 29 luglio del 1983, la strage di via Pipitone Federico che uccise suo padre, l'ha segnata, è inevitabile. Ma al tempo stesso l'ha spinta forse con ancora maggiore determinazione ad andare avanti col suo lavoro.
Dopo la sua uccisione ha mai pensato di lasciare la magistratura?
«No, nemmeno per un attimo. Ho sentito immediatamente il dovere di raccogliere il testimone».
Lui aveva approvato la sua scelta di seguire le sue orme?
«Sì, era contento che io avessi deciso di fare il suo stesso lavoro. Lui amava la giustizia, fare il magistrato, aveva un grande senso della legalità. E dopo la sua morte qualcuno mi ha confidato che mi vedeva bene in questo ruolo».
Quanta influenza ha avuto suo padre nel suo essere magistrato?
«Il suo esempio per me è stato fondamentale in tutto il mio lavoro di magistrato. Mi sono resa conto anche di quanto fosse importante una cosa che lui faceva sempre, quella di incontrare i giovani delle scuole, di cercare di trasmettere loro valori di legalità e di giustizia».
Anche lei incontra spesso i ragazzi delle scuole per parlare loro di legalità...
«Sì, e facendo lo stesso lavoro di mio padre è in fondo un dolore che si rinnova di continuo. Andare nelle scuole significa ritornare costantemente a quella tragedia. Ma nello stesso tempo è qualcosa che ti spinge ad andare avanti, un impegno che si perpetua».
Dall'uccisione di suo padre sono passati quasi 25 anni. Crede che sia cambiato qualcosa?
«Sì. Sotto il profilo dell'attività delle forze dell'ordine ci sono stati risultati significativi, quasi tutti i latitanti eccellenti sono stati catturati. Ma quella che sta cambiando davvero è la società civile: c'è l'imprenditoria che si ribella alla mafia, ci sono i giovani di Addio Pizzo che hanno provocato in positivo un effetto dirompente contro il racket.

È il segno che, nel ricordo di chi è morto per la giustizia, bisogna insistere».

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