«L’ospedale del futuro? Come un hotel»

Una vita dedicata a salvare vite. Un impegno coronato da trentamila (proprio trentamila) interventi chirurgici. E ancora oggi, il guru della medicina oncologica, Umberto Veronesi, si infila i guanti ed entra in sala operatoria. C’è gente che arriva dalla Svizzera snob (ma non eravamo noi italiani a farci curare da loro?) come dall’Arabia Saudita. Lui è lì ad accogliere tutti. Quasi sempre risolve. E basta mettere dentro la testa allo Ieo, l’Istituto europeo di oncologia, per capire che è un posto vincente. La gente entra ed esce a suo piacimento, c'è movimento a tutte le ore del giorno. Sembra un aeroporto anche se qui i body scanner non ci sono. Ma il professor Veronesi tranquillizza sull'argomento di attualità: «I body scanner non sono pericolosi, almeno in base ai dati fino ad ora conosciuti. Inoltre penso siano inevitabili per la sicurezza».
Professore, d'accordo, lo Ieo non è un aeroporto, ma non ci sono orari per le visite dei parenti?
«Per carità, l’ospedale non è una prigione. Gli orari di visita non devono esistere. Sono una vergogna per il nostro Paese. Lei ha mai visto i parenti che magari arrivano da un'altra città e che aspettano l’apertura dei reparti? Rimangono quell’oretta con il paziente e poi vengono sbattuti fuori, talvolta in malo modo».
Però ci sono problemi logistici e di organizzazione.
«Ma l’ospedale non è più un lazzaretto, non è un ghetto».
Non dovrebbe esserlo.
«Appunto. Ed è ora che gli ospedali, e non solo l’orario delle visite, vengano rifatti di sana pianta, che siano riammodernati, sia pure in modo graduale, e corredati nelle vicinanze di hotel low cost per i parenti, come quello che stiamo costruendo qui, di fianco allo Ieo».
Rifare tutti gli ospedali? Ma non è un’utopia?
«Lei dormirebbe in camera con uno sconosciuto in un albergo? Ecco, pensi al paziente che già si trova in condizioni di estremo disagio a causa della sua malattia. Bisogna offrirgli una degenza decorosa. Basta cameroni da caserma, servono stanze singole e ampie».
Ma con che soldi si ottiene questo miracolo?
«I soldi si trovano. Le strutture si fanno costruire dai privati, che poi affittano alle istituzioni. È il criterio del project financing. E poi non piangiamo sempre miseria, quando ero ministro mi arrabbiavo perché c’erano molti stanziamenti che non venivano spesi».
Accanto alla malagestione dei fondi pubblici c’è la malasanità. Ma a lei questa parola non piace, vero?
«Il nostro sistema sanitario è buono, non c'è malasanità».
Ma le notizie dell’altra settimana sembrano dirci tutt’altro.
«Gli errori umani succedono ovunque. E il valore del sistema sanitario si costruisce su quattro dati oggettivi riconosciuti in tutto il mondo».
Che sono?
«L’indice di longevità: da noi è molto alto. Ci batte solo il Giappone. La mortalità infantile: in Italia è del 3 per mille contro il 5 degli Usa e il 3,5 della Francia. Il numero dei medici per abitante: il nostro è uno dei più elevati con il 3 per mille; in Zambia c’è un medico forse ogni diecimila abitanti. Il soggiorno ospedaliero: i sette giorni italiani di media sono una garanzia di cura».
Lei non rileva neppure un divario tra Nord e Sud?
«Non direi. È che se muore un neonato a Milano non ne parla nessun giornale, se ne muoiono due a Foggia succede il finimondo».
Forse c’è una minor affidabilità nelle strutture.
«Ed è un errore. I medici sono bravi anche al Sud e ci sono ottimi centri di eccellenza. Io rilevo delle sacche di arretratezza e ospedali di poca fiducia anche al Nord» .
Ci dice qualche nome?
«No, assolutamente non posso farlo. Comunque io sono un meridionalista convinto. Lì lo stile di vita è migliore, si muore meno di tumore di un bel 20%. La gente mangia poca carne, segue la dieta mediterranea, allatta i figli».
Ma com’è che la gente del Sud viene al Nord per farsi curare o per fare anche una chemio in day hospital?
«La percezione della gente in fatto di fiducia non sempre corrisponde alla realtà. C’è invece una deficienza organizzativa che esiste anche al Nord, ma che al Sud si fa più sentire».
A cosa si riferisce?
«Attualmente la sanità è in mano alle Regioni e ai suoi assessori di nomina politica, che a loro volta nominano i direttori generali, anche loro politicizzati. Molti medici, infine, tendono ad avvicinarsi al partito del direttore per fare più rapidamente carriera. Insomma, è un sistema che non può funzionare, bisogna spezzare la catena».
Come?
«I direttori generali vanno eletti per concorso dalla struttura che li deve accogliere. Serve una valutazione apolitica e aconfessionale. Devono vincere competenza e preparazione manageriale. Vanno selezionate persone di valore, e non è facile».
Invece adesso cosa succede?
«Esistono le aziende ospedaliere, un brutto nome, evoca profitto. E questa logica porta a esasperazioni e deviazioni, perché le operazioni si possono scegliere in base a quanto rendono. È un’insidia che va combattuta. Il medico dev’essere preparato moralmente, non deve pensare ai soldi».
Be’, lo dica a chi non riesce a farsi assumere se non a termine e prende quattro lire.
«Ci sono molti clinici pagati moltissimo che sono scontenti. E non si può, per guadagnare, fare operazioni a catena. Non posso documentarlo, ma so per esempio, che si possono operare fibromi uterini inutilmente».
Ma il ministero potrà pur intervenire.
«Fazio lavora bene, ma la sanità ormai è delegata alle Regioni. Al massimo quando c’è un caso critico può mandare gli ispettori. Quando ero ministro mi sono reso conto che avevo le mani legate».
Sulla pandemia, però, Fazio ha fatto tanto e ha ricevuto anche tante critiche. Lei da che parte sta?
«Con Fazio, che si è mosso con cautela e i vaccini doveva comprarli. Se non l’avesse fatto avrebbe rischiato molto, nel caso in cui la pandemia fosse davvero scoppiata tra la popolazione».
L’Oms infatti aveva lanciato l’allerta massimo.
«L’Oms ha preso un abbaglio. Del resto è abituata a dilatare i rischi. Io e altri, però, avevamo previsto che questo virus non sarebbe stato molto pericoloso. Le pandemie esplodono in pochi giorni in tutto il mondo, questa dell’influenza suina è stata strisciante e discontinua».
A chi compete fare invece prevenzione?
«Al ministero della Salute. E attualmente di prevenzione se ne fa poca. Invece servirebbe un sistema di diagnosi precoce delle principali malattie diffuse in tutto il paese».
Quali sono?
«Cardiopatie, diabete, tumori alla prostata, al seno e all’ovaio. Soltanto per quello al seno siamo avanti».
A proposito, cosa raccomanda alle donne?
«Dopo i 40 anni, mammografia ed ecografia annuale. In questo modo la guarigione di un tumore in fase iniziale e non palpabile sale al 98%, se è palpabile e sotto il centimetro, guariscono nove donne su dieci».
Un risultato dovuto anche alla ricerca portata avanti qui allo Ieo.
«Infatti il progresso della scienza sta nella ricerca. E purtroppo in Italia questa cultura è debole.

Io caldeggio i giovani ad appassionarsi al settore e suggerisco a chi distribuisce i fondi di non dare solo borse di studio, soprattutto quando durano anni. A chi lavora va garantito uno stipendio dignitoso, certo, e non a singhiozzo».

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