L’ossessione del redivivo Carifi: dimenticare il passato

Un libro tremendo, furibondo. Il cui inizio è un attacco a uno dei fondamenti della mia vita e della mia poesia: la memoria, l’unica divinità del Pantheon greco che io senta realmente divina, la maggiore delle Muse, colei che mette in comunicazione il passato con il presente proiettando i nostri sogni nel futuro, che unisce la specie, il fondamento dell’immaginazione. Per Roberto Carifi, «la memoria è della stessa natura dell’ossessione, ha un’anima compulsiva». Subito, a lettere di fuoco, e il concetto è amplificato e ribadito in un crescendo stilisticamente straordinario: segui pagina per pagina uno che sostiene il contrario di quanto tu pensi, credi e postuli, e riga per riga lo ammiri, stupito, anche emozionato. Quando i contrari sono così radicali si baciano. In Ossessione e memoria (Edizioni della Meridiana, pagg. 48, euro 8) - un titolo nettamente programmatico - Carifi scrive un libro di gusto francese, come è in parte nelle sue corde, prosa poetica e insieme saggistica lampeggiante di visioni liriche e drammatiche. Argomento: l’insostenibilità della realtà, e quindi la natura crudele, vendicativa, della memoria che continuamente alla realtà ci riporta.
Si potrebbe dire che la visione del mondo di Carifi, uno dei nostri poeti migliori, è sempre stata univocamente tragica, ma attenzione: in poesia, se chi scrive è davvero un poeta, ogni visione del mondo si stempera, si dilata nell’aria e assume una mercuriale entità di onnipresenza. In prosa le parole suonano molto più letteralmente, e infatti gli atti giuridici non sono scritti in versi. Qui tutto suona più duro perché argomentato secondo la prevalente logica della prosa filosofica, pur scossa da momenti poetici.
La ricerca dell’irrealtà, la dannazione della memoria e quindi della polis che foscolianamente è il luogo in cui l’uomo edifica la memoria, culminano in una rappresentazione della metropoli, luogo di infinite presenze, come supremo luogo della disperazione. Ma leggendo, io metropolitano convinto, «chi si sente di casa nelle metropoli è un distonico inconsapevole, un paraplegico incosciente», mi accorgevo che Carifi in realtà non demoliva la città, ma l’illusione umana che la città esaurisca il mondo, sulla scia dei disperati e anelanti passeggiatori parigini di Baudelaire, e delle anime esangui della Londra eliotiana di Prufrock, o della «città irreale» della Terra desolata. Ecco la chiave: Carifi non danna la città ma la sua illusione, non la realtà ma un’idea troppo angusta di realtà, non la memoria (che non è solo storica e individuale ma anche inconscia) ma il ricordo, «un pettegolezzo della memoria», per citare Lalla Romano.
Meravigliosa capacità di contraddizione dei poeti, specchio dell’uomo: dopo aver scritto queste pagine Carifi veniva colpito da una malattia gravissima quanto fulminea, era dato prima per finito e poi per irrecuperabile. Miracolosamente usciva da quella situazione definita irrevocabile, cominciava a camminare, a parlare, e, con uno sforzo gigantesco e premiato, prima a leggere, e poi a scrivere. Credo sia un altro l’Autore della guarigione, ma come attore il poeta Roberto Carifi, di cui sta per uscire Il silenzio del Buddha (Le Lettere), scritto dopo la guarigione, aveva contribuito con la memoria, con la parola ricordata, letta e scritta, a salvare il passato e se stesso.

Contraddizione apparente: non malediva la realtà e la memoria, ma il dolore, che gli riportava continuamente in mente il volto della madre scomparsa. Come in ogni suo libro, Carifi cercava di superare quei limiti oltre i quali regna l’Amore.

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