Luca Telese
da Roma
E tre. Nel forum a L’Unità la settimana scorsa, la linea era: «Io e Fassino colpevoli di nulla». Nell’intervista a Porta a Porta era: «Ho sbagliato a fidarmi di Consorte», ieri di nuovo un ruggito dal podio della direzione: «Guardate che Consorte non è mica il compagno G.!» (ovvero il grande inquisito diessino di Tangentopoli, Primo Greganti). Il dramma di Massimo D’Alema è quello che te lo rende simpatico, anche nel giorno in cui ci attacca senza nemmeno credere a quel che dice: «Le intercettazioni telefoniche pubblicate da Il Giornale rappresentano una forma di spionaggio ai danni dell'opposizione». Sta di fatto che in attesa del ritorno di Walter Veltroni (uomo della provvidenza, ma part-time) è lui l’ultimo leader rimasto; uno che si rigira l’ormai anemica platea del gruppo dirigente della Quercia come vuole, e che in questa vicenda torna a disporre di un incerto Piero Fassino a suo piacimento: il segretario ha piazzato i suoi ectoplasmi nei ruoli chiavi dell’organigramma, ma se c’è burrasca ha bisogno dello scudo stellare dalemiano per ripararsi. L’unico problema è che i conti non tornano lo stesso: se per azzardo il leader maximo mettesse a confronto le interviste di D’Alema dell’ultima settimana, ne risulterebbe una violenta polemica con se stesso.
Ieri, con il suo intervento, D’Alema ha cercato di raggiungere tre obiettivi: costruirsi una trincea di nuova credibilità, esaltare l’assalto al cielo fallito dell’Unipol ricompattare il gruppo dirigente agitando lo spettro del nemico alle porte. A ben vedere non ne ha colto nemmeno uno, ed il suo interlocutore più difficile da persuadere, in mezzo alla desolazione della gens fassiniana, non è stato qualche temibile agente della Spectre berlusconiana, ma un dirigente come Giorgio Napolitano, che ieri meticolosamente ha svolto una vera e propria «controrelazione». L’ex presidente della Camera ha usato Norberto Bobbio come antidoto contro il dalemismo: «Non si può contrapporre l’etica del risultato all’etica dei principi». Fino a quel momento, in dieci minuti, aveva smontato l’impianto difensivo del presidente dei Ds: la Bnl andava tenuta in mani italiane? «Francia e Spagna non sono nemici storici con cui combattersi, ma partner con cui integrarsi». L’Unipol «doveva» crescere con l’Opa? «La sinistra non deve scegliere la strada del patteggiamento per dotarsi di qualche leva economica». Segretario e presidente denunciano l’attacco al partito? «Non si deve cadere nella sindrome dell’accerchiamento, individuando, in modo anacronistico, un nemico persino nella Confindustria». I due leader chiedono solidarietà? «Bisogna confrontarsi negli organi di partito, evitando il gioco al massacro e le scivolate».
Così, quel che resta a D’Alema, quando tocca a lui, è il suo carisma. Non è poco, certo. I continui cambi di linea, ad esempio li spiega con una tripletta che nemmeno Borrelli: «Di fronte a difficoltà, aggressioni, agguati, sotto un duro attacco... c’era la era necessità di reagire. Reagire! ... reagire». E ancora: «Ci sono momenti in cui bisogna reagire con la necessaria durezza, soprattutto se si è un corpo politico esposto». Silenzio in platea, ancora un volta tutti lì, appesi alle sue parole. E D’Alema, sapientemente ironico: «Può darsi che ci sia qualcuno predisposto a questo ruolo, magari per una questione di carattere...». Pausa: «Se ne avrete bisogno, io sono sempre qui». Poi, la classifica degli interlocutori: «C’è chi vuole distruggerci, chi mettere le mani in casa nostra, e chi pone invece problemi seri». Ma il colpo di scena è sull’Unipol, che il presidente torna a difendere a spada tratta (altro che autocritica): «Diciamoci le cose come stanno, almeno fra noi. La scalata a Bnl non era l’iniziativa di un management spregiudicato, sostenuta dalla grande maggioranza delle coop italiane». D’Alema risponde a chi (Napolitano, Bandoli e Morando) aveva imputato ai leader un eccesso di tifo: «Non è stata la Curva sud, diciamo...» (a difendere l’operazione) dice sarcastico. E ancora: «Certo, non era la riforma del capitalismo italiano, ma un progetto che puntava a rafforzare il sistema». E quindi, con amarezza, ancora a Napolitano: «Non credo che se la Bnl sarà controllata da mani straniere o dalle Generali, che appartengono al Gotha della finanza italiana da sempre, sarà un bene per il paese». Anche la delusione nei confronti del «manager rosso» ieri era attenuata: «Consorte è stato uno dei grandi protagonisti della vita economica del paese». Il collateralismo? «Lui era presidente prima che diventassi presidente, e prima ancora che diventassi segretario». Gnutti? «Non sapevo nemmeno chi era»; i capitani coraggiosi e Ricucci? «Nessuno di noi è amico di nessuno».
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