C' è una pagina di storia poco nota, nel quadro complesso della Seconda guerra mondiale e della guerra civile in Italia, ed è quella dei «franchi tiratori» o «cecchini» di parte fascista, che opposero talvolta una strenua resistenza alle forze angloamericane avanzanti, e a quelle partigiane.
Già nel settembre 1943, a Napoli, si dovettero registrare vari episodi di cecchinaggio fascista. Tragica notorietà ebbero i franchi tiratori fascisti di Firenze, tra i quali si schierarono anche alcune donne, che diedero vita ad una feroce guerriglia protrattasi dal 3 agosto al primo settembre 1944. Altri scontri di questo genere si ebbero poi a Forlì e Ravenna, e nelle ultime fasi della guerra, anche a Torino, Reggio Emilia, Parma, Piacenza e Milano.
In molti casi, furono i cronisti inglesi e americani, ma anche scrittori e testimoni partigiani, a lasciare un ricordo scritto di questi estremi, disperati fuochi di presenza fascista. Che ci furono, in piccolissima parte, anche nel capoluogo ligure.
È il pomeriggio del 27 aprile 1945. I primi carri armati americani stanno appena raggiungendo il centro di Genova, dopo che i partigiani hanno segnalato le strade sgombre dalle ultime sacche tedesche. Sono in corso Buenos Aires. Pochi e frettolosi i passanti. Non tutti hanno realizzato che gli americani sono entrati in città, che la guerra sta finendo. Lo storico momento è ancora vissuto con il timore degli ultimi fuochi. Qualcuno applaude, ma c'è un attimo di incredulità, prima che sia la gioia ad invadere gli animi. Gli «Sherman», i grossi carri americani color verde oliva, procedono lenti, con l'equipaggio affacciato ai portelli. Lo sguardo soddisfatto dei vincitori sta già spaziando sulla prospettiva in salita di via Venti Settembre, mentre il primo carro sta superando la sagoma della chiesa di Santa Zita.
È un istante. Un colpo, due colpi di fucile, staffilati nell'aria stretta fra i palazzi del corso. Qualcuno sta sparando dal palazzone di fronte al cinema Augustus. È il caseggiato detto «Corte Lambruschini», pieno di finestre. È da lì che qualcuno - uno o più franchi tiratori fascisti - sta facendo fuoco contro i «liberatori», moschetto modello '91 contro carri armati: una cosa da pazzi.
La gente fugge, i partigiani si danno da fare, con urla strozzate, ad indicare ora questa, ora quella finestra, mentre i militari richiudono i portelli corazzati. La colonna è ferma. Da un carro, un mitragliere apre il fuoco con l' arma da 12,7 millimetri contro il lato in alto a sinistra della facciata del palazzo. Volano calcinacci, pezzi di persiana. Il fuoco dei cecchini smette. I partigiani e alcuni americani si buttano su per le scale, puntano i mitra contro tutte le porte, ma dei fascisti nessuna traccia. Ora la colonna può ripartire, con gli americani più guardinghi. I fori dei colpi americani rimarranno sulla facciata - ultimi testimoni di un episodio di resistenza fascista - fino agli anni '80, quando il vecchio palazzone sarà abbattuto per fare spazio all'attuale Corte Lambruschini.
Ma chi era, o meglio, chi erano i cecchini fascisti che osarono sparare contro i vincitori?
Circolano varie versioni, in merito. Una dice che si sia trattato di un gruppetto di ragazzini tedeschi, figli di personale civile in servizio a Genova, impadronitisi di fucili abbandonati e decisi ad emulare i loro «kameraden» che negli stessi giorni si battevano nelle strade di Berlino.
Un'altra ha nome e cognome di un ragazzo sardo, un fegataccio del battaglione «Risoluti», che per anni si vantò del fatto nella sede del Msi genovese. Ma c'è chi giura che il corpo di un altro ragazzo sia stato trovato poco dopo la sparatoria, nel cortile del palazzo, ucciso in quanto ritenuto autore del gesto.
Giunti a pochi metri dall' imbocco di via Venti, altri colpi: gli insorti che aprono la strada ai carri Sherman, aprono il fuoco contro ombre armate apparse dietro le finestre del «Palazzo delle Finanze», edificio in stile littorio di via Fiume, che anch'esso porterà per anni i segni dei colpi impressi sulle lastre di travertino. La psicosi gioca brutti scherzi ai partigiani, ma fa di nuovo arrestare i grossi carri americani.
La festa però non è ancora cominciata: in via Venti la gente, i genovesi, cominciano ad arrivare, grazie al passaparola, incuranti dei rischi. Mentre volano i primi applausi, i carristi nervosi si guardano attorno. I mezzi sfilano con una lentezza che vuol dire una cosa sola: nessuno vuole morire stupidamente l' ultimo giorno di guerra. Sui marciapiedi, piccoli gruppi di ragazze, uomini con l'abito buono, bambini incoscienti. E gli insorti con lo sguardo fisso ai piani alti dei palazzi, tesi come corde di violino. Non a caso, in via Cesarea, due gruppi di «matteottini» si spareranno addosso, convinti gli uni che gli altri non siano altro che cecchini fascisti in fuga.
Uno, poi due colpi. Ci risiamo. Nei pressi della chiesa della Consolazione la colonna è nuovamente fatta segno a colpi di moschetto. Altri franchi tiratori, altri pazzi decisi a rovinare la festa di gran parte dei genovesi, sparando - più che altro a titolo simbolico - dai tetti delle case. La gente fugge, si nasconde senza capire da dove arrivino i colpi, mentre i partigiani bestemmiano e si sbracciano.
Un soldato americano, un nero della 92a Divisione «Buffalo», si infila in un portone, uscendone poco dopo con la baionetta insanguinata. Crede di avere ucciso il cecchino fascista, in realtà ha infilzato a morte il sig. Angelo Bianchi, innocente direttore di un negozio sottostante, che ebbe la sventura di scendere le scale nel momento più sbagliato. I franchi tiratori, invece, stanno scappando sui tetti del Mercato Orientale. Sono tre ragazzini terribili, tre dei tanti giovanissimi che nel dopoguerra daranno vita al Msi locale. Uno di questi, molto miope, nella fuga ha perso gli occhiali spessi, e gli è pure scivolato un mitra, che verrà ritrovato su un terrazzo dai partigiani.
Augusto Miroglio, nelle sue memorie («Venti mesi contro vent' anni» - ed. Il Lavoro 1964 - pagine 172/173) scrive: «...Le truppe di Almond (il generale americano comandante la 92a Divisione "Buffalo" n.d.r.) giunsero nel pomeriggio. Ma le grida di "Gli americani! Arrivano gli americani!" della gente che accorreva entusiasta in via XX Settembre, furono interrotte bruscamente da alcuni spari ai quali seguì tosto un intenso mitragliamento. La gente fuggiva in tutte le direzioni, riparava nei portoni e nei negozi che abbassavano precipitosamente le saracinesche... Al centro della strada semideserta, avanzava lentamente verso De Ferrari la colonna dei carri armati e delle autoblinde, con le armi rivolte a ventaglio verso le finestre delle case... poco dopo, al "Bristol" (albergo che fu sede provvisoria del Comitato di Liberazione Nazionale, n.d.r.) seppimo che un paio di franchi tiratori, prima in corso Buenos Ayres e poi in via XX Settembre, dalle finestre avevano sparato contro la colonna e che gli americani, messi in allarme, avevano immediatamente iniziato un fitto mitragliamento... ».
Terminato il fastidioso intermezzo, per gli americani ci sarà quindi il carosello in piazza De Ferrari, un trionfo dettato dalla consapevolezza che la guerra, finalmente, era finita. Pochi, nel dopoguerra, hanno voluto ricordare questi piccoli episodi di resistenza fascista, forse perché costituivano una fastidiosa macchia sul quadro apologetico di una «guerra di popolo» marxista, e forse anche perché certi gesti francamente sfuggono alla logica corrente. Che dire di quei ragazzi con il moschetto in mano, che sparano uno o due colpi da dietro un muro, contro un nemico vincente e strapotente? Romantici, fanatici, o semplicemente folli? La sproporzione delle forze è la stessa che il soldato italiano dovette affrontare nel corso di tutta la guerra. Fucili contro carri armati, infatti, si affrontarono, con coraggio disperato, a Nikolajewka come a El Alamein, sulle spiagge siciliane come a Cefalonia.
Resta da capire se e quanto fossero uguali i cuori che battevano dietro a quei fucili, se medesimo fu il loro attaccamento al dovere. Se li unisse un unico, fiero amore per un' idea di patria che, forse, in quelle ultime ore, si andava spegnendo per sempre.
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