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L’ultima volta del primo passo

Quattordici anni fa, Milano-Bolzano, sfida finale per lo scudetto, Forum di Assago, undicimila spettatori. Si disse: «È il primo passo». Da allora l’hockey su ghiaccio italiano è vissuto sperando ma è rimasto com’era, passando per una girandola di eventi impossibile da pensare neppure in una telenovela dove i ricchi piangono. L’hockey in Italia è adesso come allora, tutto al Nord con le valli contro la città - unica - cioè Milano, che negli anni è passata da avere due squadre a non avere più niente ma che poi ha rimesso sul ghiaccio i Vipers, vincitori degli ultimi 4 scudetti tra una minaccia e l’altra di andare a giocare in Svizzera per mancanza di motivazioni e di avversari.
Insomma, per l’hockey olimpico ci sarà pure la fila al botteghino ma non è tutto ghiaccio quel che luccica. Anni fa si provò perfino a esportare pattini e stecche al centro-sud e si ricorda ancora l’organizzazione di un All Star Game a Marino, vicino Roma: erano più i cartelloni promozionali che gli spettatori e di cartelloni ne erano stati messi pochini. In Italia si è giocato perfino un mondiale gruppo A (1994) e gli stadi erano pieni, anche se la maggior parte del pubblico arrivava dal Nord Europa. Anche allora si disse: «È il primo passo». Intanto poi si tornava a giocare per il campionato italiano, che nel corso degli anni è diventato di serie A1 prima che di serie A, sempre con doppi gironi di andata e ritorno, tanto che ormai i giocatori di squadre avversarie fanno gruppo in osteria. Un torneo che ha visto il numero delle squadre girare come le palline della lotteria di capodanno: quest’anno sono 8, l’anno scorso erano 10, due anni fa perfino quota 15 con regole scritte e riscritte, quantità di stranieri con l’elastico, l’eterno problema degli oriundi, italiani di passaporto ma non per la federazione.
E mentre la nazionale, grazie a loro, è rimasta per anni tra le dodici squadre più forti del mondo (e adesso ci è tornata, un pochino più italiana di prima), a cavallo del Duemila il campionato lo facevano gruppi di parenti di lingua tedesca, magari con il portiere che contemporaneamente figurava come magazziniere e autista del pullmino. E a fine anno poi la seconda in classifica si autoretrocedeva in serie B perché non aveva soldi o non voleva regole. Mentre adesso, che la serie B non esiste perché dopo A e A2 c’è curiosamente solo la serie C, arrivano le Olimpiadi di Torino, dove per solleticare l’interesse è stata costruita una squadra che - dopo un solo anno nella massima serie - è scesa già di categoria. Perché in fondo sperare non costa nulla, mentre quel conta davvero è portare a casa ogni quattro anni i consensi per le poltrone della Federazione italiana sport ghiaccio, organismo in cui il voto di una società professionistica di hockey vale quanto quello di un’amatoriale di curling, con tutto il rispetto per boccioni e scopette.
Eppure, dopo tutto questo, si scopre dunque che per i biglietti delle partite di hockey c’è la fila e che perfino lo sci non ha pari attesa.

Sarebbe un’occasione da prendere al volo: le stelle mondiali in Italia per rilanciare il nostro piccolo campionato. Lo sarebbe, tanto che qualcuno ora dirà: «È il primo passo». Peccato però che questa l’abbiamo già sentita.

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