L’ultimo avamposto degli alpini: «Attaccati perché portiamo futuro»

nostro inviato

a Golestan (Afghanistan)

Barriere di contenimento, gruppi elettrogeni e blindati «Lince», tende, filo spinato, un villaggio di case sparse poco lontano e tutto intorno una valle giallo polvere punteggiata di rocce, circondata da montagne e attraversata da un fiume. Dall’alto la base italiana «Ice» appare così, e non si sente l’odore del pane caldo che invece saluta l’arrivo del ministro della Difesa Ignazio La Russa, che ha voluto a tutti i costi visitare questo avamposto degli alpini nel Gullistan. Il profumo non è un miraggio dovuto al paesaggio quasi desertico del luogo, ma si deve alla squadra panettieri di Maddaloni, al lavoro nella base che fa da quartier generale alla task force «South east» fin da agosto scorso, quando è avvenuto il passaggio di consegne della regione, con il comando che è andato dai georgiani agli italiani. È una delle sorprese che riserva la base «Ice», sorella maggiore dell’altro avamposto italiano nel distretto del Gullistan, la «Snow», a venti chilometri di distanza, dove l’ultimo giorno dell’anno ha perso la vita il caporal maggiore Matteo Miotto.
La presenza nella regione è diventata più delicata negli ultimi mesi, e i contatti ostili, che nel linguaggio militare diventano «attivazioni», sono diventati piuttosto frequenti. A ottobre quattro alpini sono stati uccisi da un ordigno che ha fatto saltare in aria il loro «Lince» nella colonna di mezzi che aveva lasciato la base per tornare a Herat. Il 31 dicembre la tragedia si è ripetuta con la morte di Miotto nella base Snow. Due attentati con morti, e una cinquantina di attacchi nell’arco di cinque mesi. Quest’area, fino a poco tempo fa relativamente tranquilla, confina con la provincia di Helmand, il fronte più caldo dell’Afghanistan, dove i talebani tentano di contrastare il controllo del territorio da parte delle forze armate inglesi. E così gli «insurgent», respinti, per riposarsi dalle battaglie e rifugiarsi, ripiegavano proprio nella valle del Gullistan.
Ovvio che la presenza degli alpini li disturbi, e che proprio il nuovo presidio sia probabilmente il motivo principe dell’escalation nelle ostilità incontrata dai nostri soldati nonostante l’arrivo dell’inverno, qui peraltro non troppo rigido, che di solito impone una tregua a schermaglie e attacchi. Meno scontato, ma molto gradito dai soldati, che il ministro della Difesa abbia scelto di visitare proprio questo avamposto, 200 chilometri a sud di Herat. La Russa ha voluto assolutamente arrivare qui, tra i soldati che da mesi vivono tra queste rocce, cercando di conquistare la fiducia delle popolazioni del centro abitato di Golestan e degli altri villaggi vicini. Ci si arriva in elicottero, un Ch-47 Chinook, scortato da due Mangusta per le insidie del luogo. «Si vede che il ministro ha le palle», sintetizza un capitano, con espressione poco british ma piuttosto efficace, davanti alla porta del forno che oggi oltre al «pane quotidiano» elargisce rustici e pizza al taglio. «Non lo facciamo solo per il ministro – spiegano i “panettieri“ – perché una volta al mese, compatibilmente con il razionamento della farina, quello della pizza è un rituale per tutto l’avamposto».
Qui il clima non è lo stesso di Camp Arena, la grande base dell’Isaf di Herat. Da quando sono arrivati gli alpini, l’avamposto è più protetto e meglio strutturato, ma comunque meno «isolato» rispetto all’ambiente circostante. Ci sono lavori in corso per ampliare la base, e gli operai sono tutti afgani. Vengono intervistati prima di cominciare il lavoro, e ovviamente controllati. «Ma non ci sono mai stati problemi. Anzi, ci fossero più soldi per le commesse, questi lavori sarebbero il miglior modo di contrastare i talebani», spiega il capitano Flaviano Maggioni: «Se i pashtun del posto potessero guadagnare lavorando, non accetterebbero di farsi reclutare per cifre irrisorie, prendendo pochi dollari per attaccare i nostri convogli».
Lui, di lavoro, fa proprio questo: gira per i villaggi per conquistare fiducia e rispetto dei capi locali. È a capo del «population support group» e guida due progetti di «controinsorgenza»: «Human terrain» e «Atmospheric». Entrambi finalizzati a raccogliere informazioni, con personale – lui escluso – solo americano. Human terrain si propone di stringere legami con i pashtun dei centri abitati vicini, per esempio scavando pozzi, per preparare la strada all’arrivo dell’esercito regolare afgano che «è già molto apprezzato – spiega Maggioni – dalla popolazione del posto». Inoltre, il rafforzamento di un link con chi vive nel territorio permette di ottenere informazioni strategiche su quello che succede. Che poi è il «core business» degli «Atmospheric»: persone di assoluta fiducia, in grado di parlare l’afgano e di non essere riconoscibile, infiltrati nelle città e nei villaggi per ascoltare e raccogliere informazioni. Un attività che sconfina nell’intelligence. «Può trattarsi di un barbiere, di un panettiere, di un mullah», spiega il capitano.
Il comandante della task force, il colonnello Paolo Sfarra, intanto accompagna La Russa a visitare l’avamposto. C’è un pub, con camino molto alpino e biliardino di rigore, dove il ministro si esibisce circondato dai soldati. Che ringrazia, a nome delle istituzioni e degli italiani, per la «capacità, il coraggio e la determinazione con i quali portano a termine i loro impegni». In pochi mesi si sono gettate le basi per migliorare le infrastrutture delle popolazioni locali. Non solo i pozzi di cui si diceva, ma anche il restauro di una moschea, e l’apertura di una scuola femminile, un piccolo gesto che contrasta anche simbolicamente il decadimento delle condizioni delle donne nel corso del regime talebano. Sfarra ricorda anche la «Shoura» che la base Ice ha contribuito a organizzare a fine dicembre. Un successo: 82 anziani, i capivillaggio, si sono presentati all’assemblea, insieme a rappresentanti Isaf e dell’esercito afgano. Un primo passo per riportare qui le famiglie che sono scappate altrove sotto il regime talebano o nella prima fase del conflitto. Così per Sfarra persino gli attacchi sono un segno di nervosismo degli «insorti». «Ci attaccano perché evidentemente lavoriamo bene», spiega il giovane comandante della task force «South East».
Il tempo vola, e il programma ufficiale della visita del ministro deraglia su binari più informali: salta il briefing ma non le foto e gli abbracci tra La Russa e gli alpini, al lavoro tra le pietre e le insidie del Gullistan ormai da mesi.

«Si potrebbe pensare che una permanenza così lunga in un posto come questo possa creare depressione – spiega il ministro, che non si scompone nemmeno di fronte alla grande scritta “forza Napoli” nella panetteria, poche ore prima che a San Siro gli azzurri sfidino la “sua” Inter - ma invece parli con questi ragazzi e capisci che hanno consapevolezza del compito che svolgono, e vogliono proseguire nella loro missione, convinti di svolgere un lavoro utile alla comunità internazionale, agli afgani, ma anche all’Italia, per darci maggiore sicurezza contro il terrorismo».

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