L’ultimo dei Fratelli Fabbri Editori a 86 anni ricomincia con 250 film

Nato come editore 60 anni fa, quattro mesi prima della Repubblica italiana, Giovanni Fabbri, il monarca assoluto dei libri a dispense, l’inventore dell’enciclopedia Conoscere e delle conseguenti «ricerche» tanto amate dalle maestre e tanto odiate dagli alunni nell’Italia del boom economico, a 86 anni compiuti è l’ultimo dei Fratelli Fabbri Editori rimasto in attività. Dino, il secondogenito, un incrocio fra Errol Flynn e Amedeo Nazzari più incline a collezionare donne che fascicoli, ha perso nel 2001 la sua battaglia combattuta in tarda età contro la sclerosi multipla, e Rino, il terzogenito, è emigrato da tempo in Paraguay a occuparsi di fazende e cavalli. Persino i Fratelli Fabbri, in quanto tali, hanno cessato d’esistere, ridotti a un marchio d’impresa della galassia Rcs.
Ma lui, il primogenito, non molla e il 2 giugno ha deciso di festeggiare a modo suo la personalissima repubblica che governa assiso su un trono formato da un miliardo e mezzo di dispense, forse di più che meno, vendute fino a oggi. A Lugano, dove andò a vivere blindato e sotto scorta durante gli anni di piombo, s’è presentato alla visita medica per il rinnovo della patente. «In Svizzera per queste cose sono scrupolosissimi. Un’ora di controlli. Il medico ha scoperto che ho dieci decimi di vista e mi ha concesso di guidare senza obbligo di lenti». Per la gioia, ha salito a due a due i 101 gradini che dal lungolago di Lugano portano a via Mazzini, «era un po’ di tempo che non lo facevo». Rincasato, s’è misurato la pressione: 73 di minima, 130 di massima e 56 pulsazioni, «molto strano, sono bradicardico, di solito il mio cuore non supera i 52 battiti al minuto».
Non avendo mai deposto lo scettro di re Mida della pagina stampata (negli Anni 80 controllava la maggioranza delle cartiere che riforniscono gli editori di libri e giornali: Burgo, Sole, Timavo, Arbatax, Tuscolano), Giovanni Fabbri si sente in perfetta forma per l’ultima delle sue imprese titaniche in edicola, quella che lo ha visto improvvisarsi regista, sceneggiatore e produttore fra Hollywood, Londra e Cinecittà, e su cui si giocherà il patrimonio, la reputazione, forse la sopravvivenza stessa. L’ha intitolata Il genio e la vita, quasi che, inconsciamente, andasse in cerca di un compendio della propria avventura umana intessuta di creatività e dinamismo. Un’opera da togliere il fiato anche al più navigato degli editori: la prima biblioteca multimediale che sia stata concepita al mondo, un investimento da cinque milioni di euro, 250 biografie di geni immortali delle arti figurative, della musica, della letteratura e della scienza, vere e proprie fiction originali di 45 minuti ciascuna su Dvd, interpretate da attori professionisti, con tanto di backstage, galleria virtuale delle opere in grafica tridimensionale e una sezione d’interattività col capolavoro. Oltre all’immancabile libro, curato da un comitato scientifico presieduto dallo storico dell’arte Carlo Bertelli, già sovrintendente dell’Accademia di Brera.
Unico compagno d’avventura: la moglie Irit Elstein, architetto poliglotta che da piccola frequentava una scuola sperimentale per i 30 bambini più dotati d’Israele, 35 anni meno di lui, sposata in seconde nozze l’antivigilia di Natale del 1968, «ma il giorno dopo Santo Stefano ero già in ufficio». Talmente innamorata di Fabbri da convertirsi e farsi battezzare Iris alla vigilia del matrimonio. «Voleva che i nostri figli crescessero cattolici come me. E pensare che io invece ricevetti il battesimo di nascosto...».
Perché di nascosto?
«Mio padre Ottavio era cattolico e mia madre Stellina protestante. Così la nonna paterna, per paura che finissi nel limbo, una sera mi prelevò nella casa milanese di Porta Vittoria dov’ero stato partorito da pochi giorni e mi portò da don Ermenegildo affinché mi amministrasse il sacramento».
Mi sembra che sia venuto su calvinista.
«Ho ereditato da entrambi i genitori. Papà era nato a Forlì, commerciava alimentari, aveva l’hobby della numismatica. I suoi antenati, fabbri di nome e di fatto, erano scappati da Cremona all’epoca del Barbarossa. Mamma era una mandrogna di Bassignana. I torinesi dicono che non bisogna fare affari con questa razza di alessandrini: alla fine soccombi. C’è un motivo storico. Anticamente quella zona era un campo trincerato dove la Repubblica di Genova confinava i prigionieri catturati durante le crociate: siriani, libanesi, ebrei. Esco da quel crogiolo. Mia madre leggeva Il Sole al posto del Corriere. A 14 anni mi tolse i giornalini e obbligò anche me a sfogliare il quotidiano economico che nel ’65 si sarebbe fuso col 24 Ore. Ricordo che mio padre comprava le azioni Danubio Sava e io gli controllavo le quotazioni».
Come s’è avvicinato alla carta stampata?
«Per necessità. Sono medico. Mi piaceva la ricerca e avevo le mie idee. Per esempio sostenevo che la strada per sconfiggere i tumori passava dal sistema immunitario. Le moderne scoperte lo comprovano, ma all’epoca il professor Giovanni Castiglioni, cattedratico di patologia chirurgica, mi dava del matto. Oggi sono convinto che l’inquinamento elettromagnetico danneggi il sangue, visto che nell’emoglobina c’è un atomo di ferro. A un certo punto proposi a mio fratello Dino di farsi strappare un lembo di pelle della mano per vedere se attecchiva su una mia ferita. Allora non si sapeva nulla del rigetto».
Forse è meglio che sia diventato editore.
«Appena laureato mi resi conto che come medico sarei morto di fame. Nell’agosto 1945 mi balenò un’idea: defascistizzare i libri di testo».
Era stato antifascista?
«Sì. Non sopportavo che Mussolini avesse usato i soldi delle assicurazioni sociali per armare le corazzate Caio Duilio e Giulio Cesare. Salii in Val d’Ossola per unirmi ai partigiani, ma quando vidi che non facevano niente, a parte rubare polli e arrostirseli per pranzo, tornai a casa. La svolta alla mia vita la diede un vecchio libraio di via Paolo da Cannobio che il sabato mi lasciava leggere tutto ciò che non potevo comprare. Imparai così che la Roland produceva in Germania una rotativa offset bicolore per la stampa in grande formato a prezzi accessibili. Pensai: offrirò ai bambini nuovi sillabari a colori. Andai dallo stampatore Amilcare Pizzi. Da ragazzo, nel collegio dei Martinitt, aveva fatto a botte per una forchettata di cipolla con Angelo Rizzoli, il futuro editore. Gli proposi l’acquisto della Roland. La risposta fu: “Fam pensaa”. Tornai dopo qualche giorno: “Gh’hoo pensaa. La compro. Ma faa minga stupidat! E i testi chi li scrive?”».
Uno che li scrive ci vuole.
«Io. Lo faccio ancor oggi, controllo tutto, virgole comprese, ed è uno strazio di questi tempi, non ne trovi uno che sappia usare la punteggiatura. Nel giro di cinque anni avevo conquistato il 40% dei testi delle elementari. Ma gli alunni sono entusiasti quando il libro è fresco di stampa, mentre lo aprono svogliatamente appena si sgualcisce. Mi venne un’altra idea: perché non farli a dispense, in modo da dargli qualcosa di nuovo ogni mese? Mi recai a Roma in treno, l’aereo costava troppo, per parlarne col ministro della Pubblica istruzione, il dc Giuseppe Rufo Ermini, per trent’anni rettore dell’Università di Perugia a parte il breve periodo trascorso nel governo Scelba. Stette ad ascoltarmi. Alla fine sbottò: “Ma Fabbri! Lei non lo sa che i libri scolastici vanno cuciti in brossura con quattro punti di refe lunghi almeno due centimetri?”. Sì che lo so, signor ministro, ma io vorrei cambiarli. E lui: “Ma perché vuol cambiarli se si sono sempre fatti così?”. Di ritorno, vedendo l’edicola della stazione Centrale, mi dissi: entrerò dalle finestre invece che dalla porta. La prima idea dell’enciclopedia Conoscere nacque così».
Quante copie ne ha piazzate?
«Due milioni, pari a 600 milioni di fascicoli, considerato che per completarla ne servivano 200. Tradotta persino in indi, in urdu, in afrikaans, in turco e anche in bulgaro: me la comprava la Casa editrice del popolo. E oltre mezzo miliardo di dispense le ho vendute con I maestri del colore, una collana formata da 256 fascicoli. La città d’Italia dove andava a ruba era Trieste, e non capivo perché. Indagai: la compravano per smerciarla di contrabbando in Russia».
Poi venne la Storia della musica.
«Il primo prodotto multimediale in assoluto: 169 dischi con allegate 169 dispense. Per non ingombrare le edicole, costrinsi la Philips a incidermi 10 milioni di 33 giri con un diametro speciale: 20 centimetri. E per l’Enciclopedia della donna andai a farmi disegnare i cartamodelli originali da Chanel e Givenchy».
Il virus dell’arte e del bello chi gliel’ha inoculato?
«Mio padre. Da bambini la domenica ci portava per musei. Un’esperienza che mi è servita da adulto, quando ho capito che gli antiquari italiani erano poco più che rigattieri. Per cui ammiravo il Trittico di Modena del Greco, dipinto da Domìnikos Theotokòpulos appena arrivato in Italia, e poi andavo in cerca di opere simili da vendere a questi signori facendogli credere che erano della stessa scuola».
Sta dicendomi che spacciava delle croste per dipinti del Greco?
«Be’, non esattamente. Facevo scorgere agli antiquari le similitudini con le tele che El Greco aveva dipinto quando era uno sconosciuto madonero bizantino. A volte cercavo il conforto del critico d’arte Federico Zeri, grande amico di mio fratello Dino. D’altronde avevo bisogno di soldini per l’editoria».
Fra i maestri del colore chi è il più grande, secondo lei?
«Ci ho messo 40 anni per capirlo: Giotto. Ma non è facile assimilarlo. Per cercare un corrispettivo nella musica, non è come Bach, che ti entra subito nelle vene».
Stravede solo per i pittori?
«Anche per gli scultori: il Verrocchio è immenso, Leonardo da Vinci deve aver imparato molto da lui. E per gli architetti, dal Brunelleschi a Frank Owen Gehry, il progettista del Guggenheim Museum di Bilbao». (Ha gli occhi lucidi).
Che fa? Piange?
«Chi? Io? Non me ne sono accorto».
Un capolavoro davanti al quale va in estasi?
«Il Pagamento del tributo di Masaccio nella Cappella Brancacci a Firenze». (Gli s’incrina la voce: è di nuovo commosso). «E la tomba di Galla Placidia. Vorrei poter vivere e morire a Ravenna».
Allora perché abita in Svizzera?
«In Italia ero attorniato da guardie del corpo. Ricevetti una lettera di minacce dalle Brigate rosse. Il numero di targa della mia auto fu rinvenuto in un covo dei terroristi. “Deve stare all’erta”, mi dissero i carabinieri. Replicai: mi sembrate il cartello “Caduta massi”. Me ne andai perché stava per nascermi un figlio. Iris, infatuata, avrebbe voluto chiamarlo Giovanni come me. Non facciamo casino con i nomi di famiglia, tagliai corto. Si rassegnò a farlo battezzare John».
Poveretta.
«La stessa cosa capitò quando assunsi il mio primo magazziniere, Aldo Suardi, un bergamasco. Gli chiesi: come si chiama? “Giovanni”, rispose lui. Qui di Giovanni basto e avanzo io, da oggi in poi lei si chiamerà Aldo, gli intimai. Ed è rimasto per sempre Aldo anche per i suoi congiunti. Guardi un po’ che prepotenza gli ho usato!».
Che cosa fa John di bello?
«Ha 24 anni, ma non vuol fare l’editore. Lavora a Londra, studia l’intelligenza artificiale. Gli ho detto: mettici un po’ d’intelligenza naturale e vieni ad affiancare tuo padre. Macché! Non ho eredi. Almeno sua sorella frequenta il terzo anno alla Bocconi con indirizzo beni artistici. L’ho chiamata Jo, come una delle ragazze della famiglia March di Piccole donne crescono».
Ma non ha anche un’altra figlia, che sposò l’editore Alberto Rizzoli e poi si separò?
«Stellina, nata dal mio primo matrimonio con Nora Rizzari di Tremestieri, nobilissima siciliana molto perbene che mi reputava cretino. Per lei ero un plebeo schifoso. Il matrimonio si ruppe dopo sei mesi, quando una sera le telefonai per avvisarla che sarei rincasato prima del solito e l’avrei portata a passeggio nel parco. La risposta fu: “Sì, andiamo a fare la servetta col soldatino”. Non potevo tollerarlo. Ma stava per nascere Stellina. Le dissi: ci comporteremo da marito e moglie, separati in casa, fino a quando nostra figlia non si sposerà. E così fu. La lasciai alla fine del ricevimento nuziale».
Invece il divorzio dei fratelli Fabbri come avvenne?
«Non fu un divorzio. È che Dino s’era stufato. Ammetto d’avergli reso la vita impossibile, col mio doverismo. Io mi facevo trovare in ufficio alle 7, lui arrivava assonnato alle 9, magari dopo aver trascorso la notte con una bella figliola. Io ero qui a lavorare anche a Ferragosto, quando l’unico che veniva a tenermi compagnia era il filosofo Gustavo Bontadini. Dino si sentiva in colpa per questo. Alla fine vendette ad Agnelli».
Erano amici?
«Moltissimo. Forse perché mio fratello non peccava di servilismo con l’Avvocato. Gli diceva: “Caro Gianni, a te manca una cosa che non potrai mai comprare: la gavetta”. Vedendolo stanco, Agnelli colse l’occasione: “Ti sollevo io”. E si prese il 53% della Fabbri, mettendomi come amministratore delegato Piero Stucchi Prinetti, che veniva dalla Minnesota e di libri non capiva niente. Pensi che un giorno mi lasciò alla porta lo scrittore Fabio Tombari perché non sapeva chi fosse. Io me ne lamentavo con Gianluigi Gabetti, il custode della cassaforte Fiat. Ma lui faceva spallucce: “Eh, tu assomigli a tua madre! Sei il presidente della Fratelli Fabbri, che cosa vuoi di più?”».
E ora s’è messo in proprio con la collana Il genio e la vita.
«È un’idea che coltivavo da vent’anni, da quando rimasi folgorato da Amadeus, il film su Mozart. Alla Bbc ho imparato come si fa. Sono partito con 50 uscite in edicola su pittori e scultori dal XIII al XX secolo. Poi verranno 50 musicisti, 50 scrittori, 50 scienziati e 50 inventori o scopritori. La prima fiction su Giotto ho cominciato a girarla nel ’90. L’ho rifatta tre volte. Le prime due non andavano bene, il regista Mario Garriba ne cavava fuori un documentario, mentre io volevo un film. Poi ho incontrato Roberto Leoni, un cineasta pieno di fantasia, che ha capito la mia idea».
Perché non s’è preso come consulente Vittorio Sgarbi?
«Perché lo conosco».
Non le sembra strano che Rai, Mediaset e Sky non ci siano arrivati prima di lei?
«Lo domandi a loro. Discovery Channel mi ha già chiesto i film per gli Stati Uniti. Mediaset dovrebbe mandarli in onda al posto del Grande fratello: la qualificherebbero di più».
Ma lei quante ore lavora al giorno?
«Non meno di 10-11. Due o tre se ne vanno con l’autista nel tragitto Lugano-Milano e viceversa, però mi servono per leggere i quotidiani, la mia libidine».
Quando si riposa?
«Mai. Lavoro anche il sabato e la domenica, a casa. Non ho barche, non ho bolidi, non seguo il calcio, non guardo la Tv. E non ho hobby. Esclusa l’arte, che però è lavoro».
Tutti i soldi che ha guadagnato nella sua vita come li spende?
«In imprese non riuscite».
Non la spaventa l’idea di arrivare a 90 anni senza aver ancora finito la sua ultima collana?
«Mi sono allenato per morire sano: non ho mai bevuto vino, alcolici e caffè, non ho mai fumato. Da liceale mi diedi questa regola logica: prima di fare una cosa, chiediti se domani sarai pentito. È stato un modo per precludermi un’infinità di sfizi, lo riconosco. Però mi sono sempre attenuto al principio del non ammettere eccezioni. Altrimenti poi l’eccezione diventa la regola. Occasiones fuge».
Donne comprese?
«Vuol morire dal ridere? Dei due, quella gelosa è mia moglie cinquantenne. Lo sai bene che non ti ho mai tradita, la rassicuro. “Sì, lo so, ma non mi fido delle donne”, mi risponde lei. In effetti anche a 86 anni mi capita ancora d’incappare in qualche aspirante, diciamo così: per non offenderla, faccio finta di non accorgermene, così mi prende per scemo.

Un uomo è meno divertente quando è scemo, no? Le amanti non valgono il tempo che costano».
Dove trova la forza per continuare a lavorare a 86 anni?
«Più che altro non trovo la forza per smettere».
(334. Continua)
stefano.lorenzetto@ilgiornale.it

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