L’ultimo schiaffo all’Idv: beffata dagli alleati sulle presidenze di Zona

Tre coincidenze fanno una prova. Tre sgambetti provano che, nella sinistra milanese, all’Italia dei Valori è stato riservato un ruolo alquanto scomodo: quello del parente povero, o - fuor di metafora - dell’alleato da snobbare, saccheggiare, insomma il partito da fregare appena possibile. E ai dipietristi, ovviamente, la cosa non va a genio. La crisi ormai è lampante, e nelle ultime ore si alimentata di piccoli e grandi episodi che partono dal Pirellone e arrivano ai quartieri, come dire dal divorzio fra il partito e uno dei suoi esponenti mediaticamente più visibili, Giulio Cavalli, fino all’operazione anti-Idv messa in campo in zona 7.
Ma che non si tratti di episodi isolati ormai è chiaro, e per la conferma basta andarsi a rivedere quanto accaduto poche settimane fa, con la nomina della giunta municipale, costruita dal sindaco, Giuliano Pisapia, attorno a un solido asse con i cattolici democratici del Pd, esponenti per lo più dell’area che fa riferimento a Rosi Bindi. I più scontenti delle nomine, neanche a dirlo, furono proprio gli uomini dell’Idv, che fecero risuonare le parole «appoggio esterno» - più una presa d’atto che una minaccia a dire il vero. Il malumore è tornato a esplodere poi contro il doppio incarico di Bruno Tabacci, assessore al Bilancio e deputato dell’Api. Qualche giorno di pace apparente e poi le polveri si sono incendiate di nuovo col passaggio di Giulio Cavalli alla Sinistra, Ecologia e Libertà di Nichi Vendola. Un divorzio consensuale ma polemico con la nuova linea del partito, e seguito dalla richiesta di dimissioni dal Consiglio regionale che l’Idv ha recapitato a Cavalli tramite Luca Gandolfi, consigliere provinciale.
Ora l’ultimo capitolo di questa strategia dello svuotamento che gli alleati stanno conducendo ormai apertamente. Teatro delle operazioni la Zona 7, la cui presidenza, per gli accordi di coalizione, toccherebbe ai dipietristi. Il presidente designato, però, raccoglie solo 60 preferenze e non viene neanche eletto. L’Idv ripiega allora sulla più votata, Elena Tagliaferri, che ha un buon bottino di voti personali (oltre 230) e una solida fama di «dura». Troppo per il Pd, che a quanto pare non vuole darle neanche una presidenza di commissione. Pd e alleati dunque decidono lo sgambetto. E votano l’altro consigliere dell’Idv. Più giovane, probabilmente considerato più malleabile dalla coalizione, e meno votato (circa 80 preferenze): Fabrizio Tellini. La vicenda assume contorni surreali nel momento in cui lo stesso Tellini firma un documento, contro se stesso, che ribadisce la designazione della Tagliaferri come presidente.

L’Idv si ritrova con un (suo) presidente che non vuole, e al quale il commissario cittadino Stefano Zamponi ha già imposto l’aut aut: o la poltrona o il partito. «Per il momento è sospeso dal partito, spetta a lui la scelta definitiva fra la poltrona di presidente e la coerenza con le idee dell’Idv». Quindi o sarà presidente o sarà dell’Idv.

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