Cronaca locale

L’Unesco scopre i longobardi ma si scorda della Lombardia

«Longobardi, popolo d’Europa». Era il titolo di una storica mostra ospitata dal Comune di Cividale del Friuli, poco più di vent’anni fa, che apriva finalmente uno squarcio di luce importante, a beneficio del grande pubblico, sui cosiddetti «barbari» venuti dal Nord, e che sarebbero stati determinanti per il destino della penisola italiana, al di là di leggende, miti e presunzioni.
Quel «popolo d’Europa» venuto dal Nord è rimbalzato nelle scorse settimane agli onori della cronaca - per la verità con un po’ di sorpresa - grazie alla «promozione» a Patrimonio dell’Umanità, da parte dell’Unesco, di sette siti longobardi sparsi per l’Italia. La decisione dell’organismo internazionale ha tuttavia comportato delusione e imbarazzo per l’assenza nella lista di alcuni luoghi, come Monza e Pavia, che per la società longobarda (meglio chiamarla così piuttosto che «civiltà» o addirittura «nazione»), così come per la storia di quella che sarebbe secoli dopo diventata la Lombardia, sono stati fondamentali e decisivi. A cominciare da quel rapporto di ascendenza diretta con la famiglia Visconti, che proprio ai re longobardi fanno diretto ed esplicito riferimento per affermare immagine e credenziali, e accreditare a buon diritto il proprio potere, in un territorio «comunale» per eccellenza come quello lombardo. E creare così una gloriosa saga del casato, da tramandare ai posteri. Come si vede, la «comunicazione» era una disciplina ben conosciuta e praticata anche allora. Un esempio? E’ molto probabile che il Biscione per antonomasia, quello che campeggia ancora oggi nello stemma del Comune di Milano e che fu dei Visconti, derivi proprio dal costume longobardo - popolo (anche) di guerrieri - di portare al collo, come amuleto, un serpente in origine azzurro, loro simbolo.
Bene. Approfittando delle cronache recenti, tratteggiamo, sia pure nello spazio limitato di un articolo, un percorso ragionato sui longobardi nella loro e nostra Lombardia. Per andare a scoprire o riscoprire luoghi magari solo superficialmente conosciuti. E per capire da dove veniamo e, in fondo, cosa ci stiamo a fare qui, in questa terra fortunata, oltre 1200 anni dopo la caduta di Desiderio, ultimo re longobardo.
A segnare le tappe di questo affascinante viaggio nel tempo e nello spazio, fino all’attualità, ci hanno aiutato alcuni studiosi dell’Università Statale di Milano: Francesca Vaglienti, docente di Storia medievale, insieme con Cristina Cattaneo e Alessandra Mazzucchi del Labanof, Laboratorio di Antropologia e Odontologia Forense dell’ateneo milanese. Partiamo proprio da Milano. Ovvero dal Museo Archeologico di corso Magenta (www.comune.milano.it), che racchiude non solo reperti sorprendenti, ma anche ricostruzioni dei personaggi dell’epoca. Grazie agli studi eseguiti in diverse necropoli, tra cui quella di Bolgare, a 15 km da Bergamo, è stato possibile ricostruire nel dettaglio abitudini e costumi dei nostri antenati: come si vestivano, cosa mangiavano. E - guerre a parte - di cosa morivano. Ad esempio, il Lebanof ha identificato, su reperti ossei, una serie di patologie e di stress occupazionali, come l’ipertrofia brachiale, dovuta al movimento di flessione-estensione del braccio, tipica di fabbri e boscaioli. Ma frequente erano anche gotta, provocata dall’eccesso di carni rosse, legumi, alcool; artrite reumatoide; talassemia, a causa delle unioni con le donne mediterranee. Insomma, popolo guerriero si, ma non solo. E soprattutto crogiuolo di razze: «Potrà sembrare strano, ma parlare di Longobardi - sottolinea Francesca Vaglienti - è come dire italiani», cioè tutto e il contrario di tutto. «Quando arrivarono in Italia, a Cividale, attorno al 568, le loro tribù sono composte da Gepidi, Bulgari, Sassoni, Norici, Pannonici, oltre alle donne e ai bambini, frutto di razzie e compravedite. Per non parlare delle successive “contaminazioni“ con le popolazioni mediterranee, man mano che scendevano a Sud, dove incontrarono meno resistenza».
Da Milano a Bolgare a Trezzo d’Adda, il nostro viaggio continua fino a Brescia (con il sistema archeologico e museale di Santa Giulia), per tornare verso Est, nel Varesotto, con il parco archeologico di Castelseprio. Ma è proprio la visita nelle due città escluse dall’Unesco, Monza e Pavia, che si coglie l’essenza e il senso profondo della storia di quel popolo che, in definitiva, è anche la nostra. «Se Monza rappresenta una sorta di “manifesto politico“, con il riconoscimento dell’autorità costituita della Chiesa, l’accordo tra papa Gregorio Magno e la regina Teodolinda e la tregua con i bizantini, la vera “chiave di volta“ è Pavia - spiega Francesca Vaglienti -. Pavia infatti sarà la capitale, Pavia rappresenta la maturità “statuale“ del regno, e qui si impostano i rapporti istituzionali con il clero e gli altri domìni». Per chi vuole saperne di più, vi consigliamo di leggere l’Historia Langobardorum di Paolo Diacono (Bur, Biblioteca Universale Rizzoli, con testo latino a fronte, euro 11,40), I Longobardi.

Storia e archeologia di un popolo di Neil Christie (Ecig Genova, euro 15,50), e il classico Storia dei Longobardi, di Jörg Jarnut (Piccola Biblioteca Einaudi, euro 16).

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