«È del poeta il fin la meraviglia», verseggiava il cavalier Marino. Si potrebbe dire lo stesso per le scelte dei premi Nobel: non di rado stupefacenti, in qualche caso anche sconcertanti. Il Nobel per la pace - che a differenza degli altri viene deliberato a Oslo - è toccato questa volta a Martti Ahtisaari. Riconosco che solo una mia grave lacuna culturale può spiegare il fatto che questo nome mi sia suonato assolutamente nuovo. Apprendo infatti dalle agenzie che Martti - posso chiamarlo confidenzialmente così? - ha avuto un prezioso ruolo di negoziatore in complicate e anche drammatiche vicende internazionali: e che per di più è stato presidente della Repubblica finlandese. Dunque mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa per averlo finora ignorato.
Do per certo che le sue doti di paciere - propiziate dal volto pacioso di buona forchetta del nord - siano eccellenti, e che gli sforzi dispiegati per evitare o sanare conflitti in tre continenti meritino incondizionata lode. Ma debbo osservare che nellimmaginario della gente comune quel particolare Nobel va attribuito a personalità universalmente note per aver svolto una missione di concordia tra i popoli. Il nome del premiato - almeno questa è una diffusa opinione - dovrebbe avere una risonanza immediata nellopinione pubblica: e sia pure una risonanza discorde, come accadde per la designazione di Rabin e Arafat nel 1994.
Non conosco le generalità degli altri 196 candidati di questanno, forse tra loro mancava un personaggio incisivo. E so che diversi premiati del passato erano oscuri come il finlandese, magari anche più di lui. Ma la definizione di Martti Ahtisaari come bravissimo mediatore che appare nella motivazione del premio non è trascinante. In un prossimo futuro Gianni Letta potrebbe essere, stando così le cose, un candidato di primordine.
Diplomatico e funzionario specializzato nel comporre conflitti, Martti - ricado nel confidenziale - ha involontariamente provocato, per il Nobel assegnatogli, una querelle tra Serbia e Kosovo. La Serbia gli attribuisce responsabilità per una «secessione illegittima» ai suoi danni, il Kosovo invece esulta «è una vittoria anche per noi». Una guerriglia di parole per il portatore di pace: che ha prodigato i suoi sforzi anche in Irak, e mosso critiche alla guerra e al dopoguerra targati Usa. Il Nobel per la pace, come quello per la letteratura, sottintende di frequente antipatia verso gli Stati Uniti, o piuttosto verso quella loro componente che oggi è rappresentata dal bushismo (nel 1907 il premio fu dato al democratico Al Gore).
I Nobel sono importanti. La loro consistenza monetaria è grossa. Ma già da molto tempo vengono espressi dubbi sulla razionalità delle nomine, che appaiono spesso erratiche, o dettate da alchimie geopolitiche meschine, o francamente sbagliate. In più duna circostanza si è avuta la sensazione che i saggi di Stoccolma e di Oslo giungano alle loro conclusioni o per provincialità e scarso aggiornamento, o per per la volontà dadeguarsi a un prudente e sicuro politically correct.
Mario Cervi
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