L’unione fa la forza Nel kibbutz la vacanza alternativa

nostro inviato a Lavi

Venire in Israele e non visitare un kibbutz significa perdere uno dei capisaldi culturali oltre che sociologici dello Stato ebraico. Kibbutz è una parola che vuol dire raggruppamento e, nella sua forma più arcaica, risale ai primi insediamenti sionisti in Palestina allorché, sul lago di Tiberiade, nel 1909 venne fondata una comunità basata su rigide regole egualitaristiche e sul concetto di proprietà comune. Il motto fu «lavoro a favore della comunità»: ovvero, denaro ma servizi gratuiti dalla culla alla tomba e un sussidio basato sulle necessità individuali e il numero dei familiari. A importare questo modello furono soprattutto sionisti provenienti dalla Russia che vollero applicare alla lettera i dettami dell’ideologia di Marx, ovvero: «da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni». Un modello che nel secondo dopoguerra riscontrò il plauso dell’ambasciatore sovietico che dichiarò agli israeliani: «Bravi, con i kibbutz siete riusciti a realizzare un micro-Stato collettivo come neppure in Russia ha mai avuto luogo». Negli anni Settanta «chiesero asilo» alle comunità giovani da tutt’Europa e anche dall’America. E oggi, che cosa è rimasto di quel grande sogno? Visitare uno dei maggiori kibbutz contemporanei come il «Lavi» in Bassa Galilea fa più o meno lo stesso effetto di un grande villaggio turistico, anche perché la maggioranza delle 260 comunità ancora esistenti sul territorio di Israele poggia proprio sul turismo una parte consistente della propria economia, che si allarga all’industria manifatturiera, all’artigianato all’agricoltura. «I tempi delle ideologie sono finiti da tempo - spiega il direttore del Lavi Guido Sasson - come pure quelli dei compensi in natura e servizi. Oggi, affinché il kibbutz possa competere con il mercato, gli appartenenti alla comunità percepiscono uno stipendio e i giovani possono studiare fuori. C’è chi torna e chi decide di lasciare». Niente più marxismo dunque ma, sottolinea Sasson, un sano pragmatismo. Della formula originaria, è rimasta l’assemblea dei soci, organo supremo da cui si prendono le decisioni per tutta la comunità. «Oggi si viene in un kibbutz - continua Sasson - perché in fondo lo si può trovare conveniente: casa e lavoro assicurato per sempre e soprattutto assistenza gratuita ai figli per tutta la giornata lavorativa dei genitori. Ogni famiglia ha, il proprio appartamento che, se la famiglia cresce, può anche cambiare».

A proposito di lavoro, il kibbutz oggi rappresenta forse l’unica realtà sociale dove un individuo, se lo desidera, può cambiare radicalmente tipo di lavoro più volte nella vita e senza rischi. E anche gli anziani, se sono in salute, possono continuare a lavorare per la comunità (ad esempio nella mensa o nella lavanderia) fino a quando ne hanno voglia e forza.

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