L’università di «Slow Food» costa il triplo della Bocconi

L’ultimo affare dell’impero del gusto: laurearsi in Scienze Gastronomiche costa almeno 42mila euro contro i 12mila dell’ateneo più prestigioso d’Italia

I professori dell’università di Torino possono interrompere la lotta: che Carlin Petrini, il guru di Slow food, possa diventare a breve un loro ingombrante collega è un’ipotesi molto improbabile. Del resto, perché mai dovrebbe accettare una misera cattedra uno che possiede già un intero ateneo?
E neanche un’alma mater qualunque. L’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo è infatti la più esclusiva - leggasi costosa - d’Italia: il costo per conseguire il diploma di primo livello è di 57mila euro, 19mila all’anno. Di fronte a tasse del genere, la Bocconi passa come una scuola per parrucchiere: la più prestigiosa - leggasi prestigiosa - università italiana costa infatti «solo» 9mila euro all’anno, senza neanche offrire agli studenti il corso di etica dell’alimentazione o il seminario in lessico di francese gastronomico.
Nel luglio del 2004 Letizia Moratti, allora ministro dell’Istruzione, sancì con una visita durante l’inaugurazione l’entrata nel mondo delle corone di alloro di quella che in tanti chiamano l’«Università del Gusto». «Sembra Cambridge», esclamò estasiata. Paragone calzante, e non solo a livello estetico. Perché se da un lato l’impianto medioevale dell’abbazia benedettina di Novalesa della tenuta di Carlo Alberto (già di per sé un luogo storico della gastronomia italica, visto che qui nacque il Barolo) richiama la maestosità della mecca dell’istruzione inglese, dall’altro il successo planetario riscosso dall’ateneo ha oscurato per qualche tempo qualsiasi altro istituto di formazione: 500 candidati da tutto il mondo per 65 posti. Oggi, quattro anni dopo l’apertura dei cancelli, i futuri gastronomi sono arrivati a essere 180, che contribuiscono con le loro alte tasse al fatturato da 3 milioni e 750mila euro annuo dell’ateneo. Briciole, comunque, nel giro di affari da 20 milioni di euro del mondo Slow food.
Ma fra tutte queste carriolate di soldi, non c’è spazio per il diritto allo studio? «In effetti l’Università è roba da benestanti - ha ammesso Vittorio Manganelli, direttore della struttura -. È un nostro punto debole: abbiamo borse di studio solo per 200mila euro». Soldi che hanno meritoriamente finanziato nei primi anni le rette di quattro ragazzi kenyani, che hanno potuto così godere come gli altri, quelli paganti, degli alloggi, dei computer e dei pranzi da favola che quotidianamente l’ateneo, costola accademica dell’impero petriniano, offre ai propri iscritti.
Ma a fronte di tre anni da sogno, cullati dagli aromi di leccornie di tutto il mondo e inebriati dalle chicche enologiche custodite nella cantina dell’università (un patrimonio in bottiglie che supera il milione di euro), vale comunque la pena di studiare da guru del palato? Che prospettive lavorative apre una laurea in scienze gastronomiche? Secondo Petrini l’università dovrebbe sfornare «ragazzi che dirigeranno consorzi, lavoreranno nei ministeri o nelle organizzazioni internazionali: lì c'è bisogno di gente che sappia di cibo e che abbia capacità di visioni».

«Sarei deluso - ha commentato il direttore dell’ateneo Vittorio Manganelli - se, invece, finissero a fare le pubbliche relazioni per un’industria alimentare». Ma in fondo, se hanno potuto pagare un lusso del genere ai loro figli, le famiglie dei critici culinari del domani di ansia per un pronto inserimento lavorativo dei loro ragazzi non devono averne molta.

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