L’uomo del brandy che si beve gli sprechi

L’uomo del brandy che si beve gli sprechi

«Ieri alla stazione di Bologna ho ordinato una spremuta d’arancia. In mezzo minuto mi è stata servita. Ho chiesto al barista: “Ne vendete di più grazie a questo marchingegno elettrico che fa tutto da solo?”. Mi ha risposto: “Sì, però io la spremuta non me la posso permettere”. Uscendo, ho guardato lo scontrino: 2 euro e 50. Io e lei non ci facciamo nemmeno caso, ma quanta gente deve invece pensarci bene prima di spendere 2 euro e 50? Ecco perché combatto gli sprechi. Non per efficientismo: per giustizia».
Dà una leggera vertigine ascoltare il conte Federico Sassoli de Bianchi che parla in questo modo dall’alto del suo attico di Milano, saloni che potresti percorrere in bicicletta, un balcone di 20 metri affacciato su uno dei giardini privati più vetusti e più grandi del centro storico. Traversa di via Monte Napoleone. Chi ci arriva si sente appunto un arrivato, non si muove più da qui, al massimo si sposta di tre numeri civici, «quelle case danno su via Bigli, il poeta Eugenio Montale abitò prima all’11 e poi al 15, e la terrazza fiorita è di Marco Tronchetti Provera, che ora traslocherà nel palazzo in restauro qui sotto», fa da cicerone, avvolto nel gessato che gli ha cucito Caraceni.
La colf orientale ha apparecchiato per il breakfast, brioche alla crema della pasticceria Cova sul vassoio d’argento, piatti di porcellana, tovaglioli di fiandra. Tutto è nato attorno a questo tavolo, una sera a cena. «Abbiamo superato una certa età, siamo benestanti, dovremmo cominciare a chiederci che cosa possiamo fare di utile per gli altri, a parte il nostro lavoro», s’è aperto con gli amici di sempre. La risposta è stata unanime: «Cerchiamo di raddrizzare questo Stato che si mangia il 50% della ricchezza nazionale». È nata così la Fondazione Civicum. Scopo: fare le pulci ai bilanci dei Comuni, delle Province, delle Regioni. Per migliorarli. Una missione che all’inizio è parsa temeraria persino a Mario Camozzi, uno degli invitati, titolare del più grande studio fiscale e legale d’Italia, 500 dipendenti fra Milano e Roma.
Ma a Sassoli de Bianchi, oggi presidente della Fondazione Civicum, le sfide sono sempre piaciute, così come a suo padre, il conte Bernardino, morto centenario quattro mesi fa, il quale negli Anni 30 s’era improvvisato distillatore dopo essersi innamorato di una bottiglia di forma triangolare trovata nella bottega di un rigattiere a Roma. Tornato a casa, ordinò al suo amico Bormioli di crearne una simile nelle vetrerie di Parma, ci appiccicò sopra un ritratto dorato di Bacco su fondo color pece, la riempì di brandy e ne fece il cognac d’Italia. Lo chiamò Vecchia Romagna, perché era convinto che i prodotti dovessero avere un nome e un cognome. Al resto pensarono Carosello, Gino Cervi e una svenevole romanza in fa maggiore per violino che da allora resta legata, più che a Beethoven, a una rima ingenua: «Vecchia Romagna etichetta nera, il brandy che crea un’atmosfera».
Avrebbe potuto vivere di rendita, Federico Sassoli de Bianchi, tra Vecchia Romagna, Rosso Antico, Petrus Boonekamp «l’amarissimo che fa benissimo» e suo cugino Dom Bairo «l’uvamaro», reclamizzato da «lo frate Cimabue che se una cosa fa ne sbaglia due». Invece s’è laureato in scienze politiche alla Cattolica col professor Gianfranco Miglio, ha frequentato Harvard, Berkeley e l’Insead a Parigi e alla fine ha preferito vendere l’azienda di famiglia per fondare la Beni Reali Milano Spa, che acquista immobili in Italia e all’estero da colossi del calibro di Carlyle group, Banca Intesa, Generali, Telecom, Deutsche Bank, li ristruttura e poi li rivende.
Di certo la fondazione senza scopo di lucro, che costa 300.000 euro l’anno e ha già raccolto 500 soci attraverso il sito www.civicum.it, sarebbe molto piaciuta a Indro Montanelli e Pietro Barilla, assidui frequentatori della villa dei Sassoli a Cortina, così come sta piacendo ai Marzotto, ai Roversi Monaco, ai Canossa e ai tanti altri amici di questo cattolico di 54 anni che non comincia il pranzo senza prima aver recitato la preghiera imparata dal padre («Grazie Signore del cibo che ci dai, ti preghiamo per chi non ne ha») e che confida d’aver provato il dolore più grande quando si separò dalla moglie nel 1995 («ma ci vediamo ancora e non è mai venuto meno l’ottimo rapporto con i nostri due figli»). L’anno dopo la sua vita subì una brusca sterzata in casa di Marina Deserti, l’importatrice dello champagne Laurent-Perrier e del tè Twining che fu assessore alla cultura del sindaco Guazzaloca.
Che accadde?
«La Deserti aveva invitato a cena Dominique Lapierre, l’autore di La città della gioia, biografo di Madre Teresa. Dissi allo scrittore che avrei voluto aiutarlo. “Bene”, rispose, “allora ci vediamo il 5 marzo a Calcutta”. Era ottobre. Cinque mesi dopo mi feci trovare là. Lapierre mi portò nella città della gioia, un ghetto di lebbrosi solcato dalle fogne a cielo aperto. Ogni malato deforme lui lo presentava così: “Questo è una luce del mondo”. Mi permise di non aver più paura della povertà».
Prima aveva paura?
«Non di diventare povero, quello no. Però mi sentivo in colpa per la mia fortuna. Tornai in India sette-otto volte. Ebbi la fortuna di parlare con Madre Teresa. L’indomani una volontaria mi portò in ospedale e mi mise a lavare i pigiami dei pazienti. L’anno dopo andai nella Casa dei morenti a chiedere se avessero bisogno d’una mano. “Non hai capito niente”, mi redarguì il direttore, una guida alpina venuta dall’Austria. “Loro non hanno bisogno di te. Forse sei tu che hai bisogno di loro. Se è così, benvenuto”. Da allora finanzio una casa per figli di lebbrosi a Calcutta».
Perché ha fondato Civicum?
«Per una motivazione personale. Tre anni fa è morto all’improvviso mio fratello Guido. Un infarto. Mi ha fatto pensare che la vita non è eterna. Mi sono chiesto: continuo a dannarmi per lasciare tanti soldi ai miei figli o è meglio se gli lascio un esempio?».
Raddrizzare lo Stato è un bell’esempio.
«Parliamoci chiaro: l’Italia è così perché gli italiani sono cosà. Il cittadino non si sente il primo azionista dello Stato. Ora, qual è il primo diritto di un azionista? Disporre di un rendiconto, sapere come vengono spesi i suoi denari. Per intervenire, un amministratore delegato ha bisogno dei dati, deve poterli capire, interpretare. Così ho mandato una mia collaboratrice, Corinna Meregalli, in municipio a Milano a chiedere il bilancio del Comune. L’hanno fatta girare a vuoto da uno sportello all’altro. Arrivata infine all’ufficio giusto, le hanno chiesto: “Ma perché vuole il bilancio?”. “Perché è un mio diritto”, ha risposto. “Sì, ma lei è la prima persona in tanti anni che ce lo chiede. Non siamo attrezzati”».
Bisogna capirli.
«Dopo sette giorni le hanno telefonato: “Venga con una valigia e 160 euro per diritti di segreteria”. Gliel’hanno riempita di scartoffie. Ho interpellato la Bocconi: riuscite a trasformare questa roba in qualcosa che abbia un senso, che si capisca? Ci hanno lavorato un bel po’, ma alla fine mi hanno tradotto quelle due spanne di carte in un documento di 30 pagine. Dopodiché abbiamo esteso l’indagine ai Comuni di Roma, Torino e Napoli».
Che conclusioni avete tratto?
«Che tutti e quattro i bilanci risultano incomprensibili. Sono redatti in modo da rendere conto al re, anziché ai sudditi. L’unico scopo che si prefiggono è dimostrare che i politici non hanno speso più di quanto erano autorizzati a spendere».
È già qualcosa. E sui conti che cosa avete scoperto?
«Che Milano ha i contributi più bassi da parte dello Stato: 150 euro per cittadino, contro i 353 di Roma, i 381 di Torino e i 606 di Napoli. Che Milano ha due anziani per ogni bambino eppure la maggiore voce di spesa a carico della fiscalità generale sono i servizi per l’infanzia, 53%, anziché per la terza età. Che Napoli, la città più giovane, con più di un bambino per ogni anziano, è quella che ha le minori uscite per l’infanzia, 17%. Un piccolo dell’asilo nido costa 7.000 euro l’anno al Comune di Milano e più del doppio, 15.000, al Comune di Roma».
Perché?
«È la domanda che porremo a sindaci e assessori con l’assistenza del professor Giovanni Azzone, prorettore del Politecnico di Milano, ordinario di ingegneria gestionale. Ma l’aspetto peggiore è che Napoli spende quasi la metà delle risorse, 43%, per i servizi generali e di supporto, vale a dire per autoamministrarsi».
Esclusi gli sportelli per i cittadini?
«Proprio così. Il massimo dell’inefficienza. Al secondo posto Milano, 28%, seguita da Roma, 26%, e Torino, 21%. Se i servizi generali fossero gestiti ovunque come a Torino, Milano risparmierebbe 119 milioni di euro l’anno, Roma 138 milioni, Napoli 306 milioni. Totale: oltre mezzo miliardo di euro. Da Napoli ci hanno obiettato che il dato sarebbe inficiato dal fatto che tutto il personale rientra nelle spese correnti. Per una maggiore comparabilità dei bilanci bisognerebbe che tutti i Comuni seguissero le stesse regole contabili. Così non è».
Non dovrebbe essere compito della Corte dei conti vigilare?
«No, la Corte dei conti vaglia solo la legittimità delle delibere adottate dagli enti locali. Se poi un Comune spende il doppio di un altro per lo stesso servizio, non è affar suo. A Milano siamo andati anche a ficcare il naso nelle controllate – Aem, elettricità e gas; Atm, trasporti; Mm, metropolitana; Sea, aeroporti – che da sole rappresentano i due terzi delle attività, e abbiamo ordinato all’ufficio studi di Mediobanca una comparazione con le omologhe società dei Comuni di Roma, Torino, Napoli, Bologna e Brescia».
Risultati?
«Sorprendenti. Per esempio, la società che gestisce Linate e Malpensa risulta molto poco efficiente, con un utile e un valore aggiunto molto bassi. Quella che gestisce l’aeroporto di Napoli è invece fra le più produttive. Piccolo particolare: Capodichino è affidato alla Baa britannica, che cura gli scali di Londra, Edimburgo, Glasgow, Aberdeen, Southampton, Budapest, leader mondiale del settore. Il che dimostra che si può fare meglio affidandosi...».
Agli inglesi.
«...ai privati che lavorano in regime di concorrenza».
Il margine operativo netto delle aziende municipalizzate di Milano è attivo di 559 milioni di euro mentre quello di Bologna segna una perdita di 4 milioni e quello di Napoli addirittura di 61. Come si spiega?
«In questo conteggio non rientrano i bilanci del gruppo Hera, che eroga acqua, luce e gas a Bologna e a decine di Comuni dell’Emilia Romagna. Napoli un’azienda così non ce l’ha. Le municipalizzate guadagnano tantissimo con l’energia».
Chi garantisce l’apoliticità e l’apartiticità di Civicum?
«I fondatori».
Valerio Onida, il presidente emerito della Corte costituzionale che siede nel vostro comitato scientifico, non sembra un uomo al di sopra delle parti: ulivista dossettiano, prodiano di ferro.
«Ognuno ha le sue idee. Il professor Azzone non mi pare uomo di sinistra. O magari lo è, non lo so. Valutiamo i Comuni senza guardare al colore di chi li governa».
I cinque componenti del comitato tecnico di Civicum sono: il vicepresidente della Regione Piemonte, un assessore del Comune di Genova, due funzionari delle Province di Alessandria e di Prato, il direttore dei servizi economico-finanziari del Comune di Modena. Cinque amministrazioni di sinistra.
«Il funzionario della Provincia di Alessandria era il capo della ragioneria del sindaco Albertini a Milano. E comunque a segnalarci questi esperti è stato il responsabile enti locali di Standard & Poor’s, primaria società di rating».
Mi risulta che lei dia del tu a Romano Prodi. La moglie del premier, Flavia Franzoni, era ai funerali di suo padre Bernardino.
«Ci si può incazzare anche con una persona cui si dà del tu. Per rimanere ai bolognesi, sono più amico di Pier Ferdinando Casini».
Le pare normale che il presidente del Consiglio italiano guadagni 18.533 euro, quasi tre volte lo stipendio del presidente francese Chirac, due volte e mezzo quello del suo omologo spagnolo Zapatero, 3.284 euro in più del premier britannico Blair?
«Mi pare normale che un Paese venga amministrato da persone capaci con stipendi adeguati alle loro competenze. Il governatore di Bankitalia guadagna di più. Certo, non sarebbe male che Prodi prendesse gli stessi emolumenti di Blair e più ancora che il rapporto costi-servizi fosse uguale in Italia e nel Regno Unito. La gestione dei beni comuni in Gran Bretagna assorbe solo il 30% circa del Pil, incluso il mantenimento della regina».
Perché Civicum non promuove una raccolta di firme per una legge di iniziativa popolare che contempli un solo articolo: «Gli eletti dal popolo conservano per la durata del mandato lo stesso stipendio che percepivano al momento di candidarsi, salvo eventuali rimborsi per spese legate all’incarico».
«È una bellissima idea. Però fisserei un massimo. Altrimenti se si candida e viene eletto il mio amico Paolo Scaroni, amministratore delegato dell’Eni, che viaggia fra i 5 e i 10 milioni di euro annui, siamo rovinati. Finanziariamente, intendo».
Le sembra che gli italiani siano provvisti di senso civico?
«No. Ma va detto che è anche difficile esprimerlo. Quando nel 2000 mi trasferii da Bologna a Milano, scrissi al sindaco Albertini per mettere le mie competenze al servizio della collettività, o nell’immobiliare o nel sociale. Dopo qualche mese mi convocò il direttore dell’ufficio assistenza. Gli spiegai che mi sarebbe piaciuto lavorare gratis. “Altolà!”, mi stoppò. “Gratis mai. L’Ordine degli architetti ci ha appena fatto causa perché uno degli iscritti ha voluto regalarci il progetto di una casa per anziani”».
E gli imprenditori?
«A quelli fa difetto il senso di responsabilità verso la collettività».


Pensano ai loro soldi.
«E basta. Invece quando sei leader del mercato, dovresti preoccuparti che cresca il mercato. Non solo la tua quota di mercato».
(373. Continua)
stefano.lorenzetto@ilgiornale.it

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