nostro inviato a Bergamo
Il «marchio di fabbrica» lo porta impresso sul corpo. Indelebile. Non è un tatuaggio. Ma il segno di una vita, di una scelta, del coraggio, quello di non mollare mai. Il volto pacioso e il sorriso largo non traggano in inganno. Sono solo laltra faccia del vivere. Dietro si nascondono la tempra, lostinazione, la voglia di non mollare di un bergamasco venuto dal nulla. Oggi è un imprenditore di successo. La pelle raggrinzita, insensibile, gommosa che gli deforma braccia e torace, serve a ricordargli come cominciò. Ovvero dalla fine, da quando rischiò di morire. Per questo si considera un fortunato.
Agostino Signorelli aveva 17 anni quando si lanciò nel fuoco per salvare uno dei suoi sette operai. Impresa famigliare la sua, un capannone alle porte della Vallata, lui diviso tra fabbrica e liceo ad aiutare mamma e fratelli maggiori a fabbricare bottoni al posto di papà Giuseppe portato via da un infarto. Oggi, quarantanni dopo, possiede tre aziende, il ranking dice che sono tra le più importanti dEuropa: la Mabo Spa (a Telgate), la Mabo Carpi srl e la Zama Italia Srl (a Chiuduno). Poi uffici sparsi tra Londra, Shanghai, New York, Kiev, Praga, Sofia e agenti sparsi in mezzo mondo.
Ancora oggi però la sua è unimpresa famigliare, la mamma ormai anziana e loro, i tre fratelli, uniti. Vivono tutti, con le rispettive famiglie, nella vecchia casa, nel frattempo ristrutturata e ingrandita. Sono cresciuti pure i dipendenti e gli incassi: 150 tra operai e tecnici e un fatturato da venti milioni deuro lanno. Ecco lItalia della media impresa, quella che non si ferma, non piange, non si lamenta e continua a produrre. Sotto il segno delleccellenza.
«Un vanto ce lho - ammette Signorelli dietro la sua scrivania da impiegato - A dispetto della crisi e dei soldi che mancano sono riuscito finora a non spedire nessuno dei mie ragazzi in cassa integrazione. A non licenziare nessuno. Anzi appena potrò assumerò. Però una cosa: se questanno chiuderò il bilancio in pareggio allora vorrà dire che sono stato proprio bravo».
Come è cominciata lavventura?
Fu mio padre Giuseppe Edoardo nel lontano 1952 ad aprire lattività. Morì quando avevo 15 anni, così subentrò mio fratello Adriano che era un po più grande di me. Allepoca studiavo al classico, il pomeriggio andavo a dare una mano. Facevo loperaio nella nostra mini azienda».
E come andò quel fatidico giorno?
«Unoperaia aveva acceso il fuoco sotto un pentolino pieno di d'acquaragia e di un pasta speciale che poi serviva per lucidare i bottoni. Allimprovviso divamparono le fiamme, lei si mise a urlare... Io ero a pochi metri, davanti a mia mamma».
Cosa fece?
«Questione di attimi. Mi precipitai a spegnere il fuoco, a coprire la ragazza ma alla fine mi incendiai io. Indossavo una maglietta sintetica che si incendiò subito rimanendomi attaccata alla pelle».
Come finì?
«Loperaia se la cavò con qualche leggera bruciatura, io finii al centro grandi ustionati con il 45 per centro del corpo distrutto. Ero in coma, i medici non scioglievano la prognosi. Ero ancora qui, ma non si capiva se ci sarei rimasto».
Quanto tempo per guarire?
«Dopo tre mesi all'ospedale Maggiore di Bergamo, tra un trapianto e laltro, ho potuto tornare a casa. Non ero più quello di prima. Per altri sei mesi ho vissuto avanti e indietro tra ospedali e centri di riabilitazione».
La ragazza che salvò lha mai ringraziata?
«Non me lo ricordo, quei giorni è come se li avessi cancellati dalla memoria».
Lo rifarebbe oggi?
Una cosa così non la fai perché ci pensi, le fai d'istinto, le fai e basta. Perché uno che ragiona non si muove. Decide listinto, ciò che hai nel cuore».
Comè cambiata la sua vita?
«Sono un sopravvissuto. Ho una moglie, due figlie che studiano, trascorro la mia vita tra fabbrica e viaggi di lavoro. Ma ancor oggi devo fare tanto, ma tanto sport, per non ritrovarmi invalido. Ho passato otto anni ad allenarmi tutti i giorni, a muovere i muscoli ore e ore al giorno facendo arti marziali.
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