Politica

L’uomo forte contro l’outsider: il braccio di ferro continua

I pronostici della vigilia sono stati ampiamente scompaginati. La fatidica lettera di Palazzo Chigi con la designazione di Fabrizio Saccomanni alla guida della Banca d’Italia ieri non è giunta sul tavolo del Consiglio superiore di Via Nazionale. Per gli aspiranti alla successione di Mario Draghi è, dunque, di nuovo tempo di sliding doors, porte scorrevoli che possono cambiare il destino se solo le si oltrepassa.
Il candidato «numero uno», il direttore generale di Palazzo Koch, oltre 40 anni nella banca centrale italiana, è forte di sponsorizzazioni autorevoli come quella del governatore e futuro presidente della Bce e, soprattutto, del presidente della Repubblica. Ancora ieri Draghi ha fatto capire al Consiglio superiore che si batterà per «l’indipendenza e l’autonomia» di Bankitalia, ossia che sosterrà fino all’ultimo Saccomanni. Di qui l’immediato consulto con il presidente Berlusconi.
Se tutto andasse come nelle previsioni, non ci sarebbero sconvolgimenti nell’assetto istituzionale dell’Autorità bancaria per eccellenza. Continuerebbe a essere guidata da un «interno» che ne conosce i meccanismi alla perfezione e la politica aziendale resterebbe immutata. Rispetto delle regole al primo posto: nessuno sconto alle banche sul rispetto dei requisiti patrimoniali e sull’adeguamento ai migliori standard internazionali. Nell’ultimo anno e mezzo tutti i maggiori istituti italiani hanno dovuto accettare i diktat della Banca d’Italia: da Intesa a Unicredito passando per Ubi Banca e Popolare di Milano giudicate tutte quante con la stessa asettica neutralità. Lo stesso varrebbe per la parte «politica»: aderenza totale alle prescrizioni della Bce sia in tema di contenimento dell’inflazione che di promozione di dolorose riforme strutturali. Saccomanni è stato pure componente del «Comitato Euro» e con lo spirito delle origine preserverebbe la moneta unica.
Se, però, a vincere la partita fosse Giulio Tremonti, tutto cambierebbe. L’indicazione del direttore generale del Tesoro, Vittorio Grilli, non è certamente meno autorevole, ma di sicuro più «innovativa». Si tratterebbe di un «esterno» con una breve esperienza anche nell’attività bancaria tout court con un biennio a Credit Suisse First Boston, una pausa nella sua trentennale carriera a Via XX Settembre.
Ma Grilli, nonostante l’ottimo feeling con Carlo Azeglio Ciampi, è sempre stato un uomo delle prime volte. Ha inventato i Ctz, i certificati del Tesoro senza cedola, ed è stato ideatore del Fondo salva-Stati dell’Ue sottoforma di «società veicolo» che acquista titoli di Stato. Grilli, inoltre, è uomo di relazioni e segue molto da vicino le vicende relative agli assetti del sistema bancario italiano. Una familiarità che gli valse una nomina nella short list per il manager Unicredit che avrebbe dovuto sostituire Alessandro Profumo. Ottimi rapporti anche con Intesa Sanpaolo e con il suo azionista di maggioranza, la Fondazione Cariplo guidata da Giuseppe Guzzetti. Non sorprende, perciò, che abbia saputo attirarsi le simpatie della Lega Nord come il ministro Tremonti.
Non è un’eresia immaginare che con Grilli alla guida la Banca d’Italia possa diventare ancor più «coinvolta» nei processi decisionali dell’economia e della finanza italiana. Non a caso è stato colui che ha contribuito a dare forma alla Cdp come propulsore di investimenti sul modello della «vecchia» Mediobanca. E anche l’applicazione dei nuovi parametri di Basilea 3 per gli istituti italiani con Grilli potrebbe essere vissuta con meno apprensione e meno «burocratese». L’essere un esterno non gli gioverebbe nei corridoi di Via Nazionale.

Ma a tutto si può rimediare.

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