Controstorie

L'allarme di Sofia: così l'Europa lascia i Balcani in mano ai russi e ai cinesi

Bruxelles frena la sua entrata nell'euro e sul trattato di libera circolazione temendo un'altra Grecia. Ma i numeri le danno torto Il premier Borisov: bisogna correre ai ripari

Marzio G. Mian

«Sbrigatevi ad ancorarci definitivamente all'Occidente, altrimenti Russia, Turchia e Cina avranno mano libera nei Balcani stanno occupando spazio ogni giorno che passa. Siamo noi la garanzia di stabilità, guardate la cartina e capirete perché la Bulgaria è il baluardo dell'Occidente», ha detto giorni fa a Sofia il premier conservatore Boyko Borisov, ex cintura nera di karate, pelata da ex buttafuori e fisico da guerriero tracio («dopo un suo abbraccio sono rimasto a letto tre giorni», disse David Cameron). Fa un certo effetto osservare come il paese che fu simbolo della sudditanza al Cremlino, ligio alle purghe più feroci e ai lavori più sporchi dell'intelligence sovietica, abbia orientato con lo stesso slancio la sua leggendaria maggioranza a ovest. A lungo nessuno se l'è filata, anche il suo ingresso nella Nato nel 2004 e nell'Unione europea nel 2007 è avvenuto in modo sommesso. Nei palazzi dell'Europa occidentale si continua a guardare con sussiego a quella parte dell'est solo per rilevarne la scarsa solidarietà in tema d'immigrazione; tuttavia, mentre Sofia presiede il semestre europeo, ci s'accorge che lì s'incrociano tensioni e interessi che rischiano di minare una regione storicamente instabile. «L'Unione europea deve correre subito ai ripari o rischia di trovarsi una crisi ingestibile sul fronte sud-orientale», ha scritto sul Guardian Ivan Krastev, direttore del Centre for liberal strategies di Sofia. Nessuno come la Bulgaria ha esperienza di pressioni provenienti da Mosca ed è stato lo stesso premier Borisov, durante un vertice informale con il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker, a lanciare l'allarme sugli imponenti investimenti russi nei paesi balcanici: tre miliardi di euro negli ultimi due anni, il 15 per cento dell'economia regionale, banche, miniere, turismo sono in mano ai russi (anche se avanzano a grandi passi i cinesi). «Un quarto dell'economia bulgara dipende da Mosca», denuncia al Giornale Martin Vladimiro, analista del Centro per la democrazia a Sofia: «Alcune istituzioni sono in ostaggio dei russi». Borisov ha annunciato a Juncker che, se Bruxelles non indugerà nel processo d'inclusione di Sofia nell'euro, saranno tacitate le sirene pan slave del Cremlino, a partire dalla dipendenza energetica. Appena terminato il gasdotto proveniente dalla Grecia (220 milioni di euro) il governo è pronto a siglare un accordo con Israele e a chiudere con la fornitura di Gazprom che copre il 90 per cento del fabbisogno nazionale.

Tuttavia l'allargamento dell'eurozona al malconcio paese balcanico non è affatto scontato, nonostante sulla carta rientri nei criteri richiesti. Per ingraziarsi l'Olanda, uno dei paesi che più ostacola il suo ingresso in Schengen, Borisov ha guidato il collega Mark Rutte alla frontiera turca: «Se questi non sono i confini più protetti d'Europa, be' allora non accettateci». Ciò che accade con la Bulgaria mostra che nell'Unione europea, dopo il «caso Grecia», non sono più le norme e lo stato di diritto a regolare l'allargamento, ma la politica economica e gli interessi di alcuni stati. Sofia ribadisce che la moneta è stata ancorata al marco per 20 anni, gode di un surplus di budget, il debito pubblico è solo il 25% del Pil e l'inflazione appena 1,8%, in linea con il target della Banca centrale. Il fatto è che a Bruxelles, Berlino e Parigi vedono lo spettro di un'altra tragedia greca. La Bulgaria nelle cancellerie viene percepita come paese inaffidabile e corrotto. «È un preconcetto politico, le riserve sono infondate», dice Zsolt Darvas del centro Bruegel. «C'è un doppio standard, accettare la Bulgaria nel club dell'euro dovrebbe essere automatico. Non doveva esserlo con la Grecia, piuttosto. Noi stiamo diventando un partner necessario».

Ricordavamo la Bulgaria come un vivaio di spie e di addestratori di terroristi in missione nei paesi Nato, ma ora la ritroviamo nel ruolo di paese pacificatore che prova a garantire la stabilità nei turbolenti Balcani. Sta infatti mediando tra Atene e Skopje sulla spinosa questione del nome Macedonia; inoltre, nonostante l'ostilità della destra nazionalista al governo, Borisov ha siglato un accordo con la Macedonia mettendo fine a una delicata disputa su confini e minoranze. La mossa, secondo Ivan Krasnev, sarebbe stata ispirata da alcuni stati Nato per arrivare a inglobare l'unico paese mancante nella scacchiera balcanica dell'Alleanza e dissuadere così Mosca nel suo corteggiamento a suon d'investimenti. C'è poi la Turchia con cui la Bulgaria condivide il più «caldo» confine terrestre europeo. Una Turchia, va detto, che sta pericolosamente rimettendo in discussione i confini stabiliti a Losanna nel 1923, minacciando sia Atene sia Sofia: «Erdogan sta giocando una rischiosa partita nei Balcani attraverso le comunità musulmane in Macedonia, Bosnia, Albania e Kosovo»», dice Krasnev. «La Bulgaria si trova sotto una tremenda pressione, il 10 per cento della popolazione appartiene alla minoranza turca. E i sentimenti anti turchi stanno crescendo».

Un crocevia d'interessi contrastanti tra Russia e Turchia passano da Sofia. «Questo è un paese troppo debole per potere gestire partite così delicate. Ma Bruxelles è lontana, cieca e sorda», dice Krasnev, secondo il quale «quando l'Unione si deciderà d'investire politicamente e materialmente nella regione sarà probabilmente troppo tardi, perché a quel punto Cina, Russia e Turchia avranno comprato fedeltà e alleanze. Non serve avere una spia al Cremlino per capire come per Mosca sia un'operazione a bassissimo costo destabilizzare l'Ue attraverso la Bulgaria e i Balcani occidentali, senza alcun rischio di confronto con gli Stati Uniti. Bruxelles avrà mai la forza o la volontà di fermare questa escalation?»

Dall'era comunista la Bulgaria è uscita a pezzi, inquinamento, corruzione, mafie, istituzioni allo sbando: un paesaggio di rovine industriali e di devastazione sociale. Dal 1990 la popolazione è calata da nove a sette milioni, un esodo di massa, 60mila espatri l'anno. In maggioranza giovani professionisti che non ritornano più. Il tasso di natalità è il più basso d'Europa e quello di mortalità il più alto. Escluso il ricambio con ingressi stranieri, perché il governo non fa entrare nessuno, sui migranti è più implacabile dell'ungherese Viktor Orban: sono appena un centinaio i permessi di asilo concessi.

L'unico settore in espansione è il turismo. Molti bulgari infatti cominciano a rientrare dalle coste spagnole e dalle isole greche per lavorare nei resort sul mar Nero d'estate e soprattutto sulle piste d'inverno che sono diventate per inglesi, russi e scandinavi la destinazione sciistica low cost più popolare. E pur di fare cassa e ampliare l'offerta si stanno devastando i parchi naturali e i siti Unesco, come quello del Pirin, 440 km quadrati di laghi e foreste, definito l'«ultima riserva di selvaggio d'Europa». Per ampliare la capacità ricettiva di stranieri (una famiglia di quattro persone spende complessivamente duemila euro la settimana tutto incluso) sono già stati abbattuti tremila ettari di foresta.

Così, dopo gli abitanti spariscono anche gli alberi.

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