
Piero Maccarinelli, regista de «Il caso Kaufmann», di Giovanni Grasso, prodotto dal Ctb di Brescia e dallo Stabile di Torino (in scena al Piccolo Teatro Grassi, da domani al 18 maggio), con un curriculum di oltre cento messinscene, ha riconfermato la sua indipendenza, scegliendo di lasciare il Parioli di Roma, che dirigeva da tre stagioni, per poter fare la sue scelte e le sue letture di novità italiane e internazionali, con particolare riguardo alla drammaturgia contemporanea, anche se ha pescato in quella moderna, realizzando spettacoli tratti da testi di Ibsen, D'Annunzio, Svevo, don Sturzo e Rosso di San Secondo. Per quanto riguarda la contemporaneità, ricordo alcuni esemplari che vanno da Bernhard a Zeller, da Squarzina a Giovanni Grasso. In questa stagione, sta ottenendo un grande successo con la novità di Grasso, tratta da un suo romanzo che avevo letto e che ho potuto confrontare con la riduzione scenica che ne è stata fatta, davvero encomiabile perché ne è venuto fuori un testo autonomo, la cui trama parte dall'ultimo capitolo del libro, ovvero dal momento in cui il protagonista Leo Kaufmann chiede, alla guardia carceraria, un prete, perché dice, senza essere vero, che ha deciso di convertirsi dalla religione ebraica a quella cristiana, prima di offrire la sua testa alla ghigliottina, con l'accusa di «inquinamento razziale», che gli era stata addebitata da Osckar Rothemberg, presidente del Tribunale speciale di Norimberga, dove era stata varata la legge che evitava rapporti fisici tra una donna ariana e un ebreo.
Siamo negli anni in cui si affermava il nazionalsocialismo con la sua macchina repressiva che non ammetteva alcuna opposizione, che metteva in pratica il passaggio dalla democrazia alla repressione senza lasciare spazio a forme di resistenza che pure c'erano come ha mostrato, in un suo recentissimo libro, Tommaso Speccher («Storia della resistenza tedesca»). Anche Giovanni Grasso afferma di avere fatto ricorso a un libro documentatissimo di Raul Hilberg («La distruzione degli ebrei d'Europa»), dove lesse del caso di un ricco commerciante ebreo, condannato a morte per via di un espediente procedurale che salvaguardava l'onore e il sangue dei tedeschi da contaminazione razziale considerata un crimine non individuale, ma sociale; tanto che, chi lo avesse perpetrato doveva essere considerato un traditore della patria, oltre che della rivoluzione nazionalsocialista. Bisognava estirpare le radici criminali dalla comunità e adattare il Diritto alle circostanze e alle varie situazioni che venivano a crearsi, fino a equiparare il disonore razziale a un vero e proprio omicidio. Tutta la drammaturgia e la regia sono costruiti su un simile dibattito, favorito dallo scontro tra Kaufmann e il presidente del Tribunale, al quale si accede grazie al flach back generato dal dialogo tra Leo e Padre Hofer, che ci introduce anche al rapporto con la giovane e bella Irene, ospitata nella sua grande casa, per motivi di studio, su invito del padre, suo amico fraterno, i quali non nascondono una certa attrazione ben evidenziata da Maccarinelli in una scena dello spettacolo, per il quale è stato pensato uno spazio scenico tripartito, con un particolare risalto allo spazio carcerario dove avviene il dialogo tra Leo e la guardia, prima dell'esecuzione.
È il periodo della «notte dei cristalli» che ispirò Artur Miller per lo spettacolo «Vetri Rotti», quando gli ebrei dovettero subire calunnie infodate, le stesse che infangherranno Leo e che evidenzieranno la natura crudele dell'uomo che ha fede nel nazismo, al quale interessano soltanto condanne esemplari, magari, facendo passare un legame affettivo per un legame sessuale che avrebbe alterato, fino all'inverosimile, la fase emotiva della rivoluzione.
Piero Maccarinelli, nella sua lunga carriera, è riuscito a creare delle Compagnie di complesso, in questo spettacolo può utilizzare un grandissimo Franco Branciaroli, coadiuvato da eccellenti attori, da Viola Graziosi a Stefano Santospago, a Franca Penone, Piergiorgio Fasolo, Alessandro Albertin e Andrea Bonella.
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