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L'angelo bello e ambiguo che fu la stella di Visconti

Morto a 78 anni l'attore austriaco scoperto sul set dal regista. Di cui poi fu compagno anche nella vita

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«Sono l'eterna vedova di Visconti» ripeteva fino a pochi anni fa. È il lutto senza fine di Helmut Berger che, ai funerali del grande regista, nel 1976, si definì «vedova a soli 32 anni» e che ieri mattina, poco prima di compiere 79 anni, il prossimo 29 maggio, è morto a Salisburgo in maniera «inaspettata», come hanno battuto le agenzie del suo Paese, l'Austria. Si conclude così, in apparente tranquillità, la vita di una delle icone più irrequiete e trasgressive del cinema mondiale, chiamato spesso a interpretare personaggi un po' maledetti e ambigui, anche sessualmente. E chissà in questo caso dov'era, se c'era, il confine tra arte e vita. Era nato a Bad Ischl il 29 maggio 1944. Un giorno, a 21 anni, dopo essersi iscritto all'Università a Perugia, si trova per caso a Volterra dove Visconti gira con Claudia Cardinale Vaghe stelle dell'Orsa. Il colpo di fulmine deve averli centrati in pieno perché subito dopo troviamo Helmut a Roma a casa di Luchino: «Ma ognuno aveva la sua camera; era lui che veniva a farmi visita», ha detto nelle interviste. Tempo un paio di anni, siamo nel 1967, e Visconti lo trasforma nel suo attore feticcio a partire dall'episodio La strega bruciata viva del film collettivo Le streghe. Il regista del Gattopardo lo volle subito anche in La caduta degli dei e successivamente in Gruppo di famiglia in un interno (1974), dove interpreta Alex, giovane cinico e strafottente. In mezzo il suo capolavoro attoriale, Ludwig, in cui dà al re di Baviera una connotazione sofferta e sensibile intercettando in pieno un certo estetismo tardoromantico. Ruolo che, curiosamente, tornerà a interpretare al tramonto della sua carriera, nel 1994, in Ludwig 1881 di Fosco e Donatello Dubini.

Certo il binomio Berger/Visconti è inscindibile e l'attore austriaco faticherà a trovare altri registi che lo sapranno valorizzare come l'aristocratico regista milanese. Ci riuscì però Vittorio De Sica quando, nel 1970 e quindi non ancora all'apice della notorietà, lo chiamò a interpretare Alberto Finzi Contini, il giovane ebreo elegante e aristocratico fratello di Micol (Dominique Sanda), nel film tratto dal romanzo di Bassani Il giardino dei Finzi Contini. Nel 1973 dà prova di saper spaziare nei generi in La colonna infame di Nelo Risi da Manzoni, proseguendo questa esplorazione nei successivi film diretti da registi di valore, non solo italiani come Florestano Vancini, Umberto Lenzi, Duccio Tessari e Sergio Gobbi, ma anche internazionali come lo statunitense Joseph Losey nell'elegante commedia Una romantica donna inglese (1975). Su un altro versante, la popolarità data dall'ambiguità dei personaggi viscontiani, porta alcuni registi a chiamarlo per perpetuarne quell'immagine a cui lui si sottopone con evidente stanchezza. Succede con Tinto Brass in Salon Kitty (1976) e con Alberto Bevilacqua in Le rose di Danzica (1979). Mentre l'interpretazione d'un pericoloso criminale, in La belva col mitra di Sergio Grieco, sarebbe rimasta dimenticata se Quentin Tarantino, che ha definito Helmut Berger come «il più grande attore vivente», non ne avesse inserito una sequenza in una scena di Jackie Brown. Negli anni '80 l'attore si ricicla in tv partecipando a serie come Fantômas, Dynasty e I promessi sposi con la regia di Salvatore Nocita.

E poi c'è la vita vera, leggendaria, di Helmut Berger in cui, diciamo così, s'è un po' divertito, come ha raccontato nella sua autobiografia, con la Swinging London di Twiggy e Cat Stevens «ci facevamo le canne e ci abbracciavamo. Eravamo tutti fratelli e sorelle negli anni della liberazione sessuale» poi la Dolce Vita romana a cui segue la New York degli anni '70 con la droga e il sesso nei bagni turchi gay e gli anni '80 a Parigi con molti suoi amici morti per Aids o overdose. I suoi racconti narrano di un cannuccia d'oro costruita da Bulgari per sniffare cocaina, degli Agnelli frequentati a St. Moritz a cui scroccava l'elicottero per raggiungere le piste, al sesso di Nureyev scorticato da una cerniera lampo aperta troppo in fretta per soddisfare i loro desideri. Ma c'è anche un matrimonio in chiesa! nel 1994 con Francesca Guidato.

Berger ha continuato su questa altalena coerentemente fino alla fine. Nel 2015 alla Mostra di Venezia lo vediamo nel documentario Helmut Berger, actor del compatriota Andreas Horvath che Marco Giusti, su Dagospia, riassume così: «Un film che inizia con Helmut Berger a culo nudo e addosso solo una maglietta sporca di Emmanuelle a Saint Tropez e finisce con lui che si masturba di fronte alla foto di Luchino Visconti (Aristocratico) e chiede al regista di tirarselo fuori e di farglielo toccare e quando viene si asciuga con la maglia di cashmere non può che essere un capolavoro». L'arte, la vita, Helmut Berger...

Titoli di coda.

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