«L'attacco della finanza straniera al cuore dell'economia italiana»

Una fantacronaca pubblicata sul Giornale 18 anni fa e le straordinarie analogie con le vicende di Unicredit degli ultimi giorni

Il 17 agosto 1992, 18 anni fa, sulla prima pagina del Giornale usciva questo fogliettone, a firma di Paolo Stefanato, dal titolo: «E se all'estero si comprassero l'Iri e l'Eni?». Una «fantacronaca» che oggi, per forti analogie con la vicenda Unicredit, appare di straordinaria attualità. Lo riproponiamo ai nostri lettori.
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Agosto 1995. La Borsa di Milano ebbe un sussulto, oscillò sgangheratamente, come un'auto che non va in moto da anni, e poi partì. Le quotazioni dei titoli cominciarono a lievitare, sembrava un miracolo. Gli agenti di cambio tornarono frettolosamente dalle ville in Sardegna e ripresero i loro posti alle grida di Piazza degli Affari. Altre volte delle scalate clamorose avevano colto alla sprovvista il mercato proprio d'estate, quando i riflessi sono più assopiti. Ci si ricordava ancora di quei raider impertinenti che si erano impadroniti, un ferragosto dopo l'altro, prima della Bi-Invest, poi della Fondiaria. Fatti di dieci anni prima, ma mai completamente digeriti.
Ora si stava assistendo a una nuova, potente aggressione, partita misteriosamente, da lontano, e sicuramente preparata nei mesi. Sembrava condotta con una determinazione senza pari, con un impegno quasi militare. E, soprattutto, con una sfrenata larghezza di mezzi. L'obiettivo fu chiaro da subito: qualcuno stava scalando impunemente le tre grandi spa di Stato, le ex colonne delle defunte Partecipazioni statali, Iri, Eni ed Enel. Quando il governo, tre anni prima, aveva proceduto alla più grande privatizzazione della storia della Repubblica, aveva collocato alcuni pacchi di azioni presso banche e investitori italiani e stranieri, e il grusso lo aveva offerto al pubblico, in Borsa. Il Tesoro, rispondendo a opportunità politiche, era sceso in minoranza, attorno al 30 per cento: una quota ritenuta comunque sicura, viste le dimensioni dei tre gruppi, e che sembrava da sola un antidoto antiscalata.
Si precipitarono a Roma, dalle loro vacanze esotiche, anche i manager di Stato e i ministri economici. Dalle stanze della capitale partì un ordine: resistere, controscalare. Troppo importante la posta in gioco, gran parte dell'industria, delle infrastrutture e dell'energia italiane. Mentre i giornali, che alle notizie diedero crescente e sempre più appariscente risalto, si scatenarono alla caccia dei misteriosi acquirenti. Il mercato finanziario si surriscaldò. Le quotazioni dei tre titoli galoppavano giorno dopo giorno, gli sconosciuti e lo Stato si fronteggiavano dando di continuo mandato ai propri agenti di comprtare «al meglio», e cioè a qualsiasi prezzo. Ai risparmiatori non pareva vero: finalmente, quello che era sembrato l'ennesimo «bidone» rifilato dal governo, si stava rivelando un affare.
In questo clima concitato si scoprì - ma fu poca cosa - che a comprare erano finanziarie estere: avevano sede in Lussemburgo, alle Bahamas, a Vaduz, nel Liechtesnstein. Recavano nomi di fantasia ed erano, ovviamente, anonime. Risalire ai loro reali proprietari era un'impresa impoissibile, almeno nel breve periodo. Il Tesoro continuava intanto a dissanguarsi cercando di raggiungere il traguardo del 51 per cento, l'unica soglia veramente tranquillizzante: era in gioco buona parte dell'intelaiatura economica del Paese. Ogni mattina i quotidiani sparavano bollettini di guerra, aggiornando le percentuali conquistate dai contendenti. I titoli intanto erano schizzati a un prezzo quintuplo rispetto alle prime notizie di scalata.
Sembrava di ripercorrere la grande sfida di Carlo De Benedetti in Belgio, quando mancò di un soffio la Sgb. Stato e le finanziarie erano lì lì, intorno al 40% a testa, ma quando il Financial Times anticipò che le quote in mano alla Deutsche Bank - che il governo italiano riteneva in mani amiche - erano state cedute, a un prezzo triplo rispetto a quello di Borsa, alla finanziaria Rakim con sede a Vaduz, si capì che ormai il gioco per le ex società statali era fatto. Qualche estremo sussulto in Borsa, quindi un senso di spossatezza e di pace. E i prezzi cominciarono a scendere.
Alle redazioni dei giornali e alle agenzie arrivò l'invito a una conferenza stampa sottoscritto dalle finanziarie che avevano messo a segno il colpo: vi era annunciato che alle 12 in punto, al Grand Hotel di Roma, sarebbe stato svelato il mistero della nuova proprietà di Iri, Eni ed Enel.

E alle 12 in punto, di fronte a una calca di giornalisti e fotografi come non si era mai vista, abbagliato dai flash e scortato da guardie del corpo, apparve, in una divisa cachi perfettamente stiurata, con un sorriso smagliante stampato in faccia, proprio lui: il colonnello Gheddafi in persona. Un tempo semplice socio della Fiat, ora nuovo padrone di gran parte dell'economia italiana.

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